Come può un uomo fare questo?

16 Novembre 2008

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Mario Cubeddu

I resoconti dei processi erano un tempo uno dei motivi principali per cui la gente comprava i quotidiani sardi. Oggi  sono meno minuziosi e precisi, ma i motivi di interesse non mancano. In particolare per due processi che in questi giorni si celebrano in contemporanea nelle Corti d’Assise di Cagliari e Sassari. Nel primo caso l’attenzione dei media sembra tanto modesta da creare sospetti. La vicenda Ranno, la truffa di cinquanta miliardi di vecchie lire impegnati dagli enti regionali  in fondi fuori mercato e le nomine negli enti regionali funzionali allo scambio di favori, possono aiutare a capire cosa sia il centro destra in Sardegna e Forza Italia in particolare. Belle donne, giovani rampanti, massima disinvoltura nell’uso del denaro pubblico per fare solo gli interessi privati. Pochi sembrano scandalizzarsi; che venga considerata una vicenda ordinaria indica a che punto è arrivata la classe politica sarda, molto flessibile sulla questione morale. Lo schieramento di centrosinistra ha ugualmente i suoi guai e le sue reticenze: il Presidente del Consiglio regionale Giacomo Spissu è stato rinviato a giudizio per truffa aggravata ai danni dello Stato e solo i radicali di Sassari chiedono le sue dimissioni.  Il processo si terrà in autunno con l’imputato ancora alla guida del Parlamento della Sardegna.  Ben maggiore è l’interesse che circonda il processo ai rapitori di Giovanni Battista Pinna, un giovane proprietario terriero e allevatore di Bonorva. “Scalzo e in mutande, barba e capelli lunghi con residui di fieno, sporco, le ginocchia sanguinanti, bagnato. Una catena di due metri bloccata al collo con un lucchetto.” Questo è l’uomo che viene fuori dalla forma specifica di lager per individui soli, al massimo una coppia, che costituisce il contributo della “cultura” sarda agli orrori del Novecento. Si tratta del destino di uno scampato, uno di quelli che porteranno impresso nella mente e nel corpo per il resto della vita il segno della sofferenza, come il numero sul braccio dei sopravvissuti al lager nazista. Moltissimi non ce l’hanno fatta, morti per stenti o  malattia, uccisi per liberarsi di un ingombro, o perché hanno osato ribellarsi alla violenza del sequestro. Sono le vittime, che si contano a decine, di una forma di lotta di classe? Un cronista osservava che, nonostante le condizioni disperate in cui Giovanni Battista Pinna si era presentato alle prime persone incontrate nel cantiere di Sedilo, nessuna di queste si era prestata a soccorrerlo, ma si erano limitati a indirizzarlo all’ufficio e al telefono. Come se quell’uomo e la sua evidente sofferenza non li riguardasse. In Sardegna è durato a lungo l’equivoco del “banditismo sociale”.  Forse è una teoria che va in buona parte rivista, almeno per rendere maggiore giustizia alle vittime dei sequestri di persona. Lo stesso Eric J. Hobsbawm, autore di “Banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna”, ha accettato di mettere in discussione le sue tesi ammettendo di aver fatto un “uso acritico delle fonti letterarie e leggendarie sul banditismo”. La simpatia per il bandito esprime solo una frustrazione individuale e un vano desiderio di rivalsa. “Il mito del bandito è fondamentalmente un insieme di consolazione e falsificazione”, ammette  Hobsbawm  riportando un giudizio di Giuseppe Giarrizzo.. Il cuore tenero dei sardi palpitava un tempo per coloro a cui era capitata “la disgrazia”. Che consisteva nell’essere accusati di un delitto, processati e condannati ad anni di galera. Non importa se colpevoli o innocenti. Forse perché ci si sentiva parte di un’innocenza collettiva colpita da una condanna storica ingiusta; o per la percezione inconscia di un potere economico, politico e sociale, nato da atti di sopraffazione. Invece le vittime, derubati, sequestrati o assassinati, rimanevano nell’ombra del discorso e del sentimento. Di essi si preferiva non parlare, il loro protagonismo, decisamente involontario, dava fastidio. Si ricorda ancora il giornalista che, ancora pochi anni fa, opponeva la simpatia per la signora anziana di Orgosolo imputata e condannata per sequestro di persona, vestita del nero delle vedove sarde, all’insofferenza per i modi disinvolti e moderni della giovane e graziosa sequestrata Silvia Melis. Una di condizioni apparentemente modeste e l’altra benestante, se non ricca. E poi una con l’aura etnica, una vera sarda barbaricina, e l’altra con aspetto e comportamenti meticci e cittadini.  La questione criminale in Sardegna non passa mai di moda, sia che si tratti di episodi di cronaca, assalti a banche con sparatorie, delinquenza che minaccia e colpisce gli amministratori pubblici e destabilizza comunità intere, sia che si tratti della presenza di questi temi nel discorso ideologico sull’identità dell’isola. Esso continua a proporre il paradigma del feroce razziatore come modello interpretativo di tutta la vicenda sarda, dalla iniziale formazione alla “via del male” alla fine tragica. Il destino del delinquente rappresenterebbe il destino di tutti i sardi. Anche l’immaginazione dei narratori e degli uomini di cinema continua ad essere attratta dalle biografie di banditi e mai dal destino almeno altrettanto tragico delle loro vittime. Samule Stochino e Sonetàula sono gli ultimi ad essere stati scelti a rappresentare un’epoca della storia moderna della Sardegna. I nostri antenati sono sempre feroci e fieri banditi, mai imbroglioni, falsari, speculatori. E’ difficile capire a chi faccia comodo un discorso del genere. Forse è la moneta che continua a pagare una piccola borghesia intellettuale di provincia per entrare nel discorso comunicativo nazionale.  Solo ad Antonio Cossu, tra gli scrittori del secondo dopoguerra, dobbiamo uno sguardo rivolto all’altra parte del problema grazie al romanzo “Il riscatto”. Non stupisce che sia uno scrittore totalmente partecipe della realtà della Sardegna interna, in prima fila nella battaglia per risolvere i suoi problemi, a sfuggire alla mitologia del “balente” e affrontare il sequestro di persona nei suoi termini reali.

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