Contorni: I fatti di Orune-Nule, il codice della vendetta e l’educazione dei giovani

1 Giugno 2016
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Giulio Angioni

Credo valga la pena di riprendere e ampliare quanto giorni fa scrivevo su La nuova Sardegna a proposito di questi fatti e dei loro sviluppi giudiziari. Già a ridosso, e ora per qualificare i risultati delle indagini sull’uccisione di Gianluca Monni e di Stefano Masala, è ricorrente l’indicazione della vendetta come movente. Cosa abbastanza evidente, già fin dall’agguato mortale di Orune, se per vendetta si intende semplicemente un’azione violenta e micidiale di rivalsa. Ma ora, dato anche il luogo degli eventi, si parla di sopravvivenza del codice della vendetta barbaricina. Quindi è utile fare qualche precisazione, anche per cercare di fare giustizia contro chi va sanzionato e rieducato, e per renderla alle vittime e anche alla storia culturale antica e recente della Barbagia.

La norma che bisogna vendicare l’offesa (cioè la vendetta) è ritenuta dagli studiosi, soprattutto dall’orunese Antonio Pigliaru, tratto fondante del vecchio ordinamento giuridico barbaricino. La norma della vendetta come diritto e dovere è infatti vista da Pigliaru come introduzione a un sistema di certezze del singolo e della comunità, e anche come azione di tutela giuridica per il singolo, per i gruppi interni come le famiglie e i parentadi, per l’intera comunità. L’offesa deve essere vendicata da chi l’ha subita. E ciò non perché un certo istinto primordiale di difesa, d’equilibrio o anche se di giustizia esiga la vendetta come giusta reazione all’offesa, ma perché l’ordine sociale, il sistema di regolarità che fonda e tutela quell’ordine, impone al suo membro di vendicarsi quando è stato offeso. Obbligo sociale perché l’offesa al singolo o a un gruppo interno turba l’ordine sociale, istituendo estraneità e conflitto, da restaurare con l’esercizio della vendetta, delegato all’offeso, o in subordine al gruppo di cui fa parte. È la comunità stessa che si realizza e si pone come soggetto di azione mediante l’attribuzione al singolo del dovere della vendetta. Il vendicatore è dunque organo della società perché vendicare l’offesa è un fatto di interesse pubblico in quanto tale, e quindi da disciplinare compiutamente e integralmente. La vendetta è allora, oltre che dovere morale, anche dovere giuridico, perché si configura come castigo, e in questo contesto da “codice di guerra”, come lo qualifica Pigliaru, la nozione di castigo non è incommensurabile con la nozione moderna e civile di pena.

Ci sono difficoltà e aporie intrinseche al codice tradizionale della vendetta, a parte lo scontro con altri ordinamenti forestieri compresenti e alternativi nel passato e nel presente, per non dire del grande insegnamento cristiano del perdonare le offese. Pigliaru ha annotato e chiosato puntualmente i ventitré articoli della sua trascrizione del codice consuetudinario e implicito della vendetta. L’ultimo articolo, il ventitreesimo, recita: “L’azione offensiva posta in essere a titolo di vendetta costituisce a sua volta nuovo motivo di vendetta da parte di chi ne è stato colpito, specie se condotta in misura non proporzionata ovvero non adeguata ovvero sleale. La vendetta del sangue costituisce offesa grave anche quando è stata consumata allo scopo di vendicare una precedente offesa di sangue”.

L’azione vendicatrice come nuovo motivo di vendetta per Pigliaru rivela arcaicità, inefficacia e inadeguatezza come mezzo di restaurazione dell’ordine sociale turbato. La vendetta, scrive Pigliaru, è inadeguata come “introduzione a un sistema di certezza” e come “azione di tutela giuridica”. Il principio degenera e diventa incontrollabile come appunto le faide, con le sequele di banditismo. Il codice barbaricino, in questa sua inconcludenza e inadeguatezza, è e rimane un “codice di guerra”, “legge della giungla” che regola l’ostilità senza porsi il problema di eliminarla.

L’ordinamento giuridico barbaricino, a suo tempo legge tacita, politica implicita, opinione pubblica vincolante, si segnala come esempio sardo di norme ampiamente diffuse nel mondo soprattutto in passato, a cominciare dalla vicina Corsica, tipici di società semplici dove il potere non si disloca gerarchicamente, e dove invece si potrebbe parlare di una egemonia vicina al suo stato puro, nel senso di un consenso spontaneo e implicitamente richiesto e ottenuto da parte di tutti, incorporato per impregnazione inconscia, che diventa conscia nei rapporti con modi di vita contigui o compresenti, come lo stato moderno nei confronti di culture tradizionali più o meno differenti e confliggenti, sub-società con la loro cultura propria.

Ma, a parte il giudizio negativo di arcaicità, barbarie e inconcludenza dato da Antonio Pigliaru al codice sardo della vendetta, i fatti di Orune-Nule non si inquadrano affatto nella logica imperativa della vendetta come ordinamento giuridico, tanto meno come lo si conosce per la Barbagia tradizionale. Primo, perché l’uccisione dell’offensore, innescata da una banale rissa da discoteca (come un tempo da tzilleri), risulta del tutto sproporzionata all’offesa; secondo perché si accompagna all’uccisione di un estraneo; terzo perché l’atto punitivo è stato compiuto anche da un complice dell’offeso; quarto perché la vendetta ha comportato anche il furto e la distruzione di un bene (l’automobile) di un estraneo da rendere responsabile dell’omicidio. Pigliaru, come tanti altri orunesi di ieri e di oggi, già per nulla indulgente verso l’efficacia giuridica del codice della vendetta, non darebbe a questo comportamento criminale nessuna patente di atto giuridico previsto dall’antico codice locale basato sulla regola che l’offesa va vendicata da parte di chi l’ha ricevuta. Se i fatti di Orune-Nule si sono svolti grosso modo come le cronache ci informano, in base agli atti e alle parole degli inquirenti, quei fatti sono tanto estranei al codice della vendetta barbaricina quanto al codice penale dello stato italiano, e altrettanto condannabili da entrambi gli ordinamenti giuridici.

Resta l’enorme e ovvio problema del che fare, da parte di noi tutti, di fronte a questi comportamenti, specie di minorenni. C’è chi richiama alla necessità di preoccupazioni e attività educative più efficaci, con contenuti e forme aggiornate. E la cosa non può non apparire giusta e stringente. C’è infatti da temere che sia ancora forte nel senso comune l’idea lombrosiana della delinquenza innata, mentre non ha fatto ancora abbastanza strada, nelle menti e nei comportamenti di tutta la “società educante”, l’idea che nessuno al mondo “nasce imparato”, ma che a vivere s’impara, sempre e ciascuno, magari anche nel carcere e nel correzionale, a norma di Costituzione. Bisogna che i giovani siano di più e meglio a contatto con comportamenti e insegnamenti espliciti e impliciti, formali e informali, che sanzionino la violenza. Ciò è ovvio quanto il respirare, se non fosse che in troppi ancora implicitamente ed esplicitamente ci si comporta, e quindi si educa, come se tutto fosse già determinato, oltre che negli usi e nei costumi del luogo, già a priori nel DNA del singolo, ultima irratio dei nostri tempi.

Gli altri articoli della rubrica Contorni di Giulio Angioni su il manifesto sardo

2 Commenti a “Contorni: I fatti di Orune-Nule, il codice della vendetta e l’educazione dei giovani”

  1. Alessandro Mongili scrive:

    Sono contento che Giulio Angioni faccia questo intervento. Tuttavia, mi permetto di far osservare che, nella sua ricostruzione della “teoria” di Pigliaru-padre esiste un riferimento all’ordine sociale come condizione di equilibrio da ristabilire (in questo caso tramite la vendetta).
    Ora, non sarebbe forse arrivato il momento di dire che questa visione di una società come ordinata, tendente all’equilibrio e/o sbilanciata è una visione difficilmente sostenibile, dopo tutti questi decenni di studi?

  2. Roberto Careddu scrive:

    Concordo sul fatto che dinanzi alla premeditazione di tale delitto,che ha portato alla collaborazione di Cubeddu e all’omicidio di Masala,ci allontaniamo dal Codice della Vendetta di Pigliaru,ma il punto è che non è al Codice del 1959 che secondo me ci si deve riferire. Il limite del lavoro di Pigliaru sta nel fatto che codificando delle regole di condotta le ha cristallizzate,ancorandole al 1959: da allora è cambiata la società e le modalità di offesa. La società di quelle zone non è più schiettamente agropastorale,o se ancora l’economia è quella, lo è con metodi diversi. A non cambiare è la mentalità che rimane aggrappata a vecchi codici comportamentali,però male influenzata dai valori utilitaristici odierni:chi prima non accettava di sottostare all’ordinamento giuridico italiano(non sentito proprio)e all’esercizio delle leggi,sceglieva la via della latitanza,con gli affanni e le difficoltà ad essa connessi;oggi invece Pinna non rinuncia a “su recreu de sa domo” e architetta un piano per far ricadere le colpe su Masala.
    Dopotutto nello stesso dettato dell’art.23 del Codice(norma di chiusura in tutti i sensi)è proprio riconosciuta l’eventualità di una vendetta sproporzionata,quindi è possibile che si “esagerasse” nell’applicazione della vendetta,senza per questo allontanarsi dal codice(che anzi dice:L’azione offensiva posta in essere a titolo di vendetta costituisce a sua volta nuovo motivo di vendetta da parte di chi ne è stato colpito, specie se condotta in misura non proporzionata ovvero non adeguata ovvero sleale). Prendo le mosse dalla rissa di Dicembre,che stando alle sue parole non costituirebbe condizione necessaria per essere considerata offesa da lavare col sangue:”LaNuovaSardegna” ci dice che la sera di Cortes,Pinna,non solo avrebbe molestato con palpeggiamenti e ineleganti apprezzamenti ragazze presenti nella sala da ballo(tra le quali anche la ragazza del Monni),ma sarebbe perfino arrivato a puntare una pistola contro Monni durante la discussione inevitabilmente sorta. Disarmato e allontanato dal locale,rientrando a Nule,viene raggiunto nella periferia orunese da un anonimo drappello che,sotto minaccia di fucile,lo invita a scendere dalla macchina per poi percuoterlo ferocemente e umiliarlo urinandogli addosso(aggiungendo alla vendetta lo sbeffeggio). Questa è già la prima vendetta-punizione,vissuta da Pinna come motivo di affronto e umiliazione,a cui poi si aggiunge la famosa poesia,da lui ritenuta ulteriore sbeffeggio. Ciò andrebbe a configurare(seppure nella sola immaginazione di Pinna)le circostanze soggettive dell’offesa di cui all’art.13 del Cod.Pigliaru. Proprio qui si palesa una mentalità in cui è ancora forte il sentimento di vendetta(il movente del delitto è il vendicare l’umiliazione subita),segno che un codice della vendetta esiste,ma aggiornato ai tempi correnti. Con ciò non posso che condividere le idee Sue e di Pigliaru sull’inconcludenza e inadeguatezza di un qualsiasi codice della vendetta.

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