Dagli all’untore

16 Maggio 2009

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Gianni Loy

Il pendolo oscilla tra xenofobia e razzismo. Cioè tra indiscriminata avversione nei confronti dello straniero e tendenza “suscettibile di assurgere a teoria o di esser legittimata dalla legge” che fondandosi sulla presunta superiorità di una razza “favorisca o determini  discriminazioni sociali  o addirittura genocidio”. Le definizioni sono asettiche, ripres  dall’etimologia delle parole. Politica è stabilire se i fenomeni in atto nel paese corrispondano a tali definizioni. Mi è sempre rimasta impressa, sin da quando ero poco più che bambino, una affermazione che il popolo italiano, andandone fiero, ripeteva con orgoglio: Gli italiani non sono razzisti! Ricordo anche qualche buontempone che faceva il bastian contrario:  E’ facile dichiarasi non razzisti quando non si convive con lo straniero!  Perché allora gli stranieri erano rari ed oggetto di curiosità. Il popolo italiano aveva aspettato con ansia l’arrivo della “bella abissina”,  liberata dalla schiavitù e pronta a compartire lo stesso duce e lo stesso re degli italiani. Straordinaria anticipazione della società multiculturale in chiave fascista! C’era qualcosa, tuttavia, che non mi convinceva, qualcosa che istintivamente mi faceva pensare che vi fosse qualche differenza tra noi bianchi e le belle abissine. Il fatto che cinema e stampa non potessero pubblicare immagini di donne bianche con le tette al  vento, mentre le abissine potevano essere esposte pubblicamente e senza alcun imbarazzo nella loro nudità. Erano germi inconsci di diffuso razzismo? Gli unici altri stranieri erano quasi solo gli americani, visitavano spesso i nostri porti. Ricordo molto bene quello di Cagliari. Erano anche negri, a quel tempo la parola si poteva dire. Erano quelli che, dopo aver distrutto la citta, “cagliarized” nei loro codici militari, ci avevano liberato. Regalavano cioccolata e sigarette a noi bambini lungo le strade della Marina ancora ingombre di macerie.  Che facessero anche dei regali alle ragazze, allora, non lo potevo percepire. Mi è stato raccontato più tardi. Probabilmente abbiamo vissuto, per decenni, in un equivoco terminologico, dovuto anche alla sostanziale assenza dell’oggetto di cui, allora, si discuteva con leggerezza e con implicito rimprovero nei confronti di altri paesi. Ora gli stranieri sono qui. Sono con noi ed attorno a noi. Ed il popolo italiano si scopre, prima di tutto, xenofobo. Poco importa che molti, tra noi, simpatizzino con simpatici senegalesi , che ogni tanto si racconti un’esperienza di solidarietà. La verità, cruda, è che la prevalenza degli italiani avvertono quella “avversione” nei confronti degli stranieri che il vocabolario ci presenta quale connotato della xenofobia . Avversione diversamente graduata e giustificata. Il timore che portino via il lavoro agli italiani. Paura per la propria incolumità e sicurezza. Fastidio per il decoro. Preoccupazione per la criminalità di cui sono responsabili gli stranieri.  Che tutto corrisponda a verità, o che non lo sia in misura preoccupante, è indifferente. Sappiamo bene, ad esempio, che l’immigrazione favorisce la crescita economica del paese e le stesse possibilità  di occupazione per gli indigeni, cioè per noi. Ciò che importa è la percezione.  Peraltro, le ondate migratorie determinano disagi reali tra la popolazione residente. Non è possibile esorcizzarle con un liberatorio girotondo multiculturale. Ho in mente una coppia di anziani che vive in un quartiere ormai a prevalenza straniera. Hanno  perduto i rapporti del tradizionale vicinato a cui erano abituato, hanno visto cambiare i la fisionomia dei luoghi che frequentavano. E’ come se vivessero, in definitiva , in terra straniera. E’ ovvio che vivano in condizioni di disagio, se potranno andranno via. Così si rafforzano le enclave. Altro che integrazione.  Non far finta che il problema non esista, ma neppure amplificarlo a rischio di alimentare la crescente intolleranza.  Il fatto che questo movimento xenofobo cerchi un alibi nella condizione di clandestinità degli stranieri che si vorrebbero ributtare a mare, sfiora il ridicolo. Un elevato numero  di clandestini, probabilmente la maggior parte, ha un regolare lavoro “in nero” . Essere clandestini o no, se posso evocare un’antica terminologia, è una sovrastruttura. Essi lavorano regolarmente: se qualcuno li regolarizza li chiamiamo regolari, altrimenti li chiamiamo clandestini, ma continuano ad svolgere, in ogni caso, la medesima funzione economica. Del resto, la maggior parte degli attuali regolari non erano forse clandestini  trasformati, miracolosamente, in regolari da una semplice sanatoria? Questa insofferenza popolare viene mirabilmente cavalcata da una componente del Governo ed è ingoiata, suo malgrado, dall’altra componente.  Ed il governo, in puro stile circense, concede alla folla quanto essa  reclama a gran voce: vara leggi che non miglioreranno la sicurezza dei cittadini ma lo lascerà credere.  Inutilmente una parte si ribella. Il sacrifico è stato ormai promesso. E la folla, il popolo, non dovrà andare deluso. A costo di soffocare nel voto di fiducia i malumori di chi, anche all’interno della compagine governativa, conserva nelle vene e nella ragione (magari anche nel cuore) fiotti di umanità. Molto vi sarebbe da dire. Il mio intento, tuttavia, è solo quello di esplorare come si arrivi al razzismo. Le misure repressive nei confronti degli immigrati clandestini sono valutabili sotto differenti profili. Il primo, il più eclatante, è l’evidente violazione di principi stabiliti da organismi sovranazionali.  L’elenco delle “condanne”, o ammonimenti, o segnalazioni subite dall’Italia negli ultimi anni per aver posto in essere atti discriminatori nei confronti di stranieri, è impressionante. Tuttavia, il presidente annuncia che non è così, l’Italia rispetta tutte le leggi internazionali: sono i legittimi rappresentanti di tali organismi che si sbagliano!  Del resto, una volta che il clamor di folla ha chiesto la liberazione di Barabba e la condanna del Nazareno, la storia deve seguire il suo corso. La paura dello straniero, di per sé, non è razzismo. (continua)

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