Fanno il deserto e lo chiamano Conad

16 Febbraio 2020
[Cristiano Sabino]

Non è una grande consolazione ma oggi possiamo dirlo a gran voce: sulla grande distribuzione organizzata in questi anni partiti e sindacati, media e intellettuali da riporto, propagandisti del libero mercato drogato ed economisti infarciti di manualetti bocconiani hanno raccontato solo unu muntunazu de catzaras.

Per anni e anni, specialmente in Sardegna, una classe politica corrotta e servile ha concesso autorizzazioni, varianti ai piani urbanistici, ha moltiplicato volumetrie senza sosta e senza pudore: «ampliamo, concediamo, saniamo, aumentiamo, duplichiamo, avalliamo che i megamercati portano lavoro, portano finanziamenti, portano buste paga, portano circolazione economica, portano civiltà, portano controlli sui cibi, portano reddito procapite». Questo era il mantra, il nam myoho renge kyo sui giornali, alla TV, nei dibattiti alle elezioni comunali, provinciali, regionali, statali, europee. Ritornello suadente e cadenzato che arrivava come verità rivelata nei bar, nelle scuole, negli uffici, dal parrucchiere, all’autolavaggio, per strada, in casa. Perfino le vittime lo ripetevano accalorate, i dipendenti dei piccoli esercenti, i proprietari di locali commerciali cittadini in via di deprezzamento, i nuovi schiavi alle casse, alla logistica, assunti con contratti ridicoli dalle aziende in terzo conto. Tutti convinti che le maghifiche sorti avrebbero lavorato, come una mano invisibile, al bene comune della società. Più mercato, più volume di affari, maggiori ripercussioni economiche positive sul tessuto sociale e urbano, anche al di fuori dalla cinta delle mura di proprietà delle multinazionali del grande commercio organizzato.

La stessa litania l’hanno ripetuta quando il Governo Monti (con i voti del PD, vale la pena ricordarlo) ha approvato il celebre decreto “Salva Italia”, con cui – fra le altre cose – si apriva il far west dei festivi liberi con la scusa – ripetevano tutti i liberal in fila come soldatini all’alzabandiera – che così l’economia sarebbe cresciuta, che dopotutto anche i medici facevano i turni, che that’s capitalism baby, do you know?

Poi hanno perfino provato con l’apertura h 24. Stessi argomenti, stessa schiera servile di petto in fuori pancia in dentro, stessa passività da parte dei sindacati sempre pronti a differenziare, acconsentire, calmierare, gettare acqua sul fuoco. Per fortuna almeno l’apertura totale è morta lì e dopo brevi sperimentazioni non se ne è più parlato, per lo meno nella nostra isola.

Poi un bel giorno – che bel giorno non è stato affatto – è arrivata la doccia fredda. Cito a macchia di leopardo dal volantino distribuito lo scorso 8 febbraio a Sassari e Cagliari da Caminera Noa, Rifondazione Comunista, Potere al Popolo e Sardegna Rossa: con l’acquisizione dei punti di vendita Auchan da parte della rete Conad sono infatti a rischio migliaia di buste paga in tutto il sistema (circa 6mila su 16mila dipendenti). In Sardegna sono a rischio circa 420 posti di lavoro (per non parlare dell’indotto) su 738 dipendenti. Il passaggio tra Auchan e Conad in pratica è una liquidazione fallimentare: un miliardo di euro in totale per tutti gli Iper e le merci, più 500 milioni in cassa, cioè una cifra irrisoria paragonabile ad una vendita d’asta alla prima chiamata.

I sindacati confederali seguono lo stesso copiane di tutte le vergognose vertenze che in questi anni abbiamo visto e seguito in Sardegna (e non solo nella nostra terra) nelle situazioni dove. Arrivano alla fine dei giochi, fanno finta di protestare (quando protestano), poi quando sale il calore della mobilitazione gelano tutti con frasi di circostanza sempre valide come “bisogna aspettare”; “non è il momento di alzare i toni”; “abbiamo importanti rassicurazioni da parte della Regione e della proprietà”.

Il risultato di questa brillante politica sindacale è che lo scorso 9 gennaio si è riunito il tavolo permanente tra le tre sigle sindacali confederali e le istituzioni dell’autonomia, con la fragorosa assenza di rappresentanti della Rete Conad in Sardegna.

Ovviamente i sindacati si sono guardati bene dal convocare una mobilitazione dei lavoratori sostenuta da un nuovo sciopero generale di tutti i lavoratori Conad, che in effetti era l’unica arma che poteva creare problemi ad un’azienda che fa dell’immagina attenta alle persone, ai lavoratori, alla salute e al territorio una potente icona di marketing.

I lavoratori sono invece lasciati a macerare nell’attesa che si fa ogni giorno più snervante. I nostri numerosi contatti ci riferiscono di un clima di disillusione e di rassegnazione che serpeggia praticamente incontrastato tra gli scaffali e le casse di tutti e quattro i punti vendita presenti nell’isola. Per loro l’alternativa alla perdita del lavoro non è né la cassa integrazione, né il reddito di cittadinanza e nemmeno un’altra disperata ricerca di lavoro in un’isola ridotta dai meccanismi semicoloniali del capitalismo nostrano a terra di conquista di qualunque affarista.

L’unica alternativa è la valigia dell’emigrato. È per questo che uno degli slogan utilizzati nelle mobilitazioni è stato “Isetare cheret nàrrere emigrare”. Persone trattate come cose, cose pronte ad essere spedite come pacchi postali fuori dall’isola con esodi che la signora assessora al lavoro Alessandra Zedda che ha “rassicurato” dichiarando alla stampa che nel 2020 non ci saranno licenziamenti (nel 2020, poi chissà?) e soprattutto ci saranno solo «esodi volontari».

Poi la notizia di oggi 14 febbraio, tipo regalo di S. Valentino. Dalla Nuova Sardegna: “Conad-Auchan choc: scatta la cassa integrazione”. Immaginate quanto conta la ministra Zedda!

Che questa vertenza condotta da forze animate da valori anticapitalisti e per l’autodeterminazione del popolo sardo ci insegni la necessità di creare una sola e costante “agenda Sardegna”. Dalla lotta dei precari sardi della scuola (che proprio oggi hanno riempito le strade e le piazze con colorati e partecipati cortei a Cagliari e Sassari) ai lavoratori Auchan-Conad, dalle lotte mai sopite dei pastori al contrasto di progetti energetici inutili per le vive esigenze dei sardi, dalla difesa delle coste sarde alla lotta contro l’occupazione militare e all’utilizzo della nostra terra come pattumiera del continente, dalla drammatica situazione dei trasporti all’inquietante spopolamento di tutta l’isola, è necessario che venga fuori un progetto politico popolare, verde, sardo capace di catalizzare tutte quelle forze sociali, culturali, politiche e sindacali che non hanno venduto l’anima al diavolo e che non si ricordano della bellezza degli ideali solo a 3-4 mesi dalle elezioni. Viste le premesse c’è da essere fiduciosi!

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