Giulia Cossu: “Vi racconto i traumi a cui sono sottoposti i migranti”

16 Settembre 2018
[Matteo Meloni]

Frustati, violentati, torturati fino alla morte con la colla liquida che brucia i loro corpi. Queste sono solo alcune delle sevizie, documentate nelle scorse settimane, alle quali sono sottoposti i migranti che, dopo aver percorso migliaia di chilometri, si ritrovano infine nei centri di detenzione libici. Con il caso della nave Diciotti a lungo sulle prime pagine dei giornali e i migranti salvati dalla Guardia Costiera italiana autorizzati allo sbarco solamente dopo numerosi giorni di trattativa, fa specie l’insensibilità con la quale parte dell’opinione pubblica giudica il fenomeno dell’accoglienza e la presenza dei migranti sul territorio italiano. “In un momento di evidente disagio sociale più o meno dilagante e disorientamento, in molti esibiscono la tendenza a farsi guidare dalla paura dello straniero, dello sconosciuto come potenziale usurpatore delle proprie ricchezze”, spiega Giulia Cossu, psicologa, psicoterapeuta, ricercatrice dell’Università di Cagliari. “Questo è un modo errato di concepire le risorse come se fossero finite e come se l’incontro con la diversità non possa generarne di nuove. Questo modo stereotipato di ragionare, tecnicamente, è definito ‘fixed pie’. In realtà non esiste alcuna torta da difendere”.

Dottoressa Cossu, lei si occupa della salute psicosociale dei richiedenti asilo in due centri d’accoglienza presenti nell’hinterland di Cagliari. In cosa consiste il suo lavoro?

Nei centri d’accoglienza lo staff delle cooperative garantisce vitto e alloggio ai migranti, e li assiste offrendo una serie di servizi per la loro salute psicosociale e psicofisica, passando per le questioni burocratiche – gestite da Prefettura e tribunale – e servizi propedeutici alla richiesta della protezione internazionale. La valutazione della salute psico-sociale viene effettuata attraverso un primo assessment all’arrivo presso la struttura d’accoglienza e con successivi colloqui psicologici di monitoraggio e sostegno. Va sottolineato che la popolazione dei migranti è esposta maggiormente ad eventi potenzialmente traumatici.

Può spiegarci meglio?

Partiamo da un dato statistico: la prevalenza ‘lifetime’ del disturbo post traumatico nella popolazione generale è stimata essere intorno al 7,8%. Questa stima ha una prevalenza dieci volte superiore quando ad essere presa in esame è la popolazione dei migrati. Entriamo nello specifico delle tipologie degli eventi traumatici a cui sono esposti: le donne, più vulnerabili, sono soggette spesso ad abusi e stupri, e non è infrequente che vengano inserite nelle tratte degli esseri umani anche una volta arrivate in Italia; gli uomini vengono rinchiusi nelle prigioni libiche, impiegati per lavori forzati, subiscono torture, assistono all’uccisione dei loro compagni di viaggio. Attraversare il mare è altrettanto pericoloso, e spesso i migranti rimangono in attesa di ricevere i soccorsi in condizioni di vita estremamente precarie.

Come ci si rapporta con esseri umani che hanno dovuto subire questi traumi?

L’approccio clinico deve tenere in doverosa considerazione la variabilità culturale delle persone a cui si rivolge. Il significato che si attribuisce all’esperienza di vita, al viaggio migratorio, agli eventuali traumi, alle emozioni e ai pensieri, può essere estremamente eterogeneo in funzione di questa variabilità. Gli utenti dei centri in cui opero hanno diverse origini: Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio, Bangladesh, Gambia, Mali, Pakistan, con differenti livelli di istruzione e scolarità. Una semplice domanda sulle emozioni che sentono, sulla tristezza ad esempio, può avere una risposta articolata su significati e spiegazioni estremamente differenti, spesso legate a riferimenti tradizionali o religiosi. Ogni cultura, in sintesi, concettualizza le emozioni in maniera differente. Inoltre l’emozione ha una componente fisiologica: la paura fa battere il cuore, fa venire la tremarella. Non è infrequente che un grande senso di smarrimento venga vissuto come mal di stomaco o mal di testa. Nella mia pratica clinica con i migranti la componente psicosomatica che esprime malessere di natura psicologica è spesso marcatamente presente.

Quali sono le tecniche d’approccio verso i migranti?

Faccio riferimento ad alcuni modelli di comprovata efficacia. Il primo, ‘Cognito Comportamentale post-razionalista’, si focalizza sul racconto del vissuto traumatico in tutti i suoi aspetti. Spesso esistono convinzioni errate o distorte in cui un ruolo fondamentale è giocato dal senso di colpa, di ineluttabilità del destino e di impotenza circa la possibilità di determinare sé stessi e il proprio futuro. Molte di queste sono credenze più o meno radicate che possono essere disfunzionali e generare ulteriore angoscia e immobilità. Si lavora, così, su un sistema di valori, pensieri e vissuto emotivo. L’altro approccio, definito ‘narrativo’, fa capo alla ‘Narrative Therapy’, e prevede la narrazione, non tanto dell’evento traumatico, ma della vita intera dell’individuo, dove si inserisce in una seconda fase l’evento traumatico, in un contesto molto più generale e più integrabile.

Quali sono gli step che vivono i migranti nel loro spostamento?

Sono stati individuati tre principali step, tutti con caratteristiche specifiche. Il pre-migratorio vede i migranti soggetti alla violazione dei diritti umani, traumi di guerra, distruzione della socialità. Il secondo, definito ‘migratorio’, include viaggi estremamente pericolosi, incertezza dell’esito del viaggio, la separazione violenta dai propri cari. Il terzo step, post-migratorio, è rappresentato da detenzioni protratte, ostilità delle comunità che ospitano i migranti, incertezza dell’esito delle procedure per la richiesta di protezione internazionale, e ancora, difficoltà linguistiche e di comprensione dei processi generali. I nostri sono sistemi complessi, ai quali i migranti si approcciano con grande senso di smarrimento e difficoltà.

Secondo lei quali sono i problemi legati all’accoglienza?

In generale, è auspicabile un assetto istituzionale più sensibile e lungimirante sul fenomeno della migrazione e dell’accoglienza. Il flusso migratorio è difficilmente frenabile, e le azioni messe in campo per costituire dei centri d’accoglienza in Libia sembra esporre ulteriormente gli esseri umani a condizioni di vita inaccettabili. Vanno invece pianificate e valorizzate azioni sensibili di sostegno e inclusione sociale in Italia nella prospettiva di poter trarre giovamento dall’incontro e dallo scambio con i migranti attraverso il loro inserimento effettivo nella società. È fondamentale un brusco cambiamento di paradigma: da straniero che fa del male – nella becera visione di taluni – a persona che porta ricchezza culturale.

E in Sardegna?

Quando arrivano sull’isola, nonostante sappiano che è una regione del sud Italia dove c’è poco lavoro, desiderano rimanere. È probabile che questo avvenga perché dopo tanta instabilità si abituano ad avere un punto fermo, seppur fragile. Le poche certezze che possono vantare – banalmente, anche un compagno di stanza col quale interagire per un certo periodo di tempo – diventano un’ancora, e una consuetudine rassicurante nella difficoltà e nel disorientamento del dover ripensare completamente alla propria vita.

La sua storia di vita ha un legame con l’Africa.

Ho sempre avuto una sensibilità per la questione migratoria e le tematiche delle persone che vivono in Paesi in via di sviluppo. E sicuramente la storia della mia famiglia ha contribuito in tal senso. I miei zii vissero ad Addis Abeba, mia madre trascorse gli anni del liceo in Etiopia. Negli anni ’80 decise di fare l’insegnante di italiano all’Università di Mogadiscio, in Somalia, e mi portò con sé. Con lo scoppio della guerra civile negli anni ’90, nonostante l’esperienza potesse prolungarsi, decise di abbandonare il Paese. Ho sicuramente ereditato un mal d’Africa, che cerco di incanalare positivamente nella mia professione, nel tentativo di alleviare le sofferenze della popolazione migratoria con la quale entro in contatto.

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