I dubbi e le reticenze che hanno minato sin dall’origine l’accoglimento del messaggio del Manifesto di Ventotene

16 Novembre 2016
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Gianfranco Sabattini

Il Manifesto di Ventotene, di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi, è nato come risposta allo stato di devastazione in cui era stata ridotta l’Europa dagli esiti della Seconda guerra mondiale, le cui cause scatenanti sono state gli egoismi nazionali e la sottostante ideologia nazionalista. Mario Giro, attuale vice-ministro degli esteri e responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio, in un suo recente articolo (“Capire Ventotene”) comparso su Limes n. 8/2016, offre una “rilettura” del “Manifesto”, con l’intento di promuovere nei contemporanei una riflessione sul “percorso europeista dalle origini ad oggi”.

La tesi di Giro è che il disegno europeo, così come venuto a configurarsi nel corso del tempo, malgrado i dubbi e le riserve di molti, abbia contribuito alla ricostruzione dei Paesi del Vecchio Continente, devastati degli eventi bellici, anche di quelli che, al cospetto della storia erano stati giudicati i massimi responsabili dello scoppio del conflitto mondiale, consentendo loro riproporsi positivamente a livello delle relazioni internazionali. Con riferimento alla Germania, Giro osserva che la realizzazione del progetto europeo ha offerto ai tedeschi di iniziare la ricostruzione del loro Paese da zero, con un impegno che ha consentito in breve tempo di porre rimedio al discredito procuratogli dalla “follia” nazifascista.

Giusto! Ma, proprio per questo, come giudicare i tedeschi di oggi che, coi loro atteggiamenti nei confronti degli altri Paesi membri dell’Unione Europea, paiono aver maturato una propensione alla cura dei propri particolari egoismi, sulla base di un nazionalismo che a stento si riesce a distinguere da quello che ha portato la Germania ad essere uno dei Paesi con le maggiori responsabilità per lo scoppio delle guerre mondiali del XX secolo?

Ciò che può consentire in parte di alleggerire le responsabilità dei tedeschi, riguardo alle difficoltà in cui si imbattono oggi gli ulteriori passi in avanti sulla via dell’integrazione politica dell’Europa, è che alcune delle riserve attualmente da essi acquisite non erano estranee, sin dall’origine, ad alcuni dei Paesi che, all’indomani della fine degli eventi bellici, si sono dati il compito di promuovere il superamento degli egoismi nazionali; alcuni di questi Paesi hanno avuto modo di manifestarle, da allora ad oggi, in più di un’occasione, com’è accaduto da parte soprattutto della Francia e, da ultimo, del Regno Unito.

Giro non manca di evidenziare le titubanze e le riserve con cui questi Paesi, pur impegnati a dar seguito al Manifesto di Ventotene, hanno aderito alla fine al progetto di unificazione dell’Europa; egli, tuttavia, sembra mostrasi fiducioso che la semplice riflessione sui contenuti del “Manifesto” di Spinelli e Rossi possa servire a rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla ripresa del processo di integrazione politica dei Paesi che attualmente fanno parte dell’Unione Europea. E’ una speranza che tutti gli europeisti militanti condividono, ma la strada che si para davanti a loro è molto in salita.

La seconda guerra mondiale “ha rappresentato – afferma Giro – per gli europei uno shock. Con quel conflitto l’Europa ha perso il suo primato mondiale, tanto che numerosi sono coloro che parlano di ‘guerra civile europea’ e di ineluttabile declino”. Le potenze europee, che pure avevano chiuso vittoriosamente la guerra contro il nazi-fascismo, versavano in condizioni non dissimili da quelle dei Paesi sconfitti; per di più erano preoccupate dalle propensioni espansionistiche dell’URSS che, in conseguenza del conflitto, già aveva esteso la sua egemonia sui Paesi dell’Est europeo. Alla vigilia della “guerra fredda”, perciò, nessuno degli altri Paesi dell’Europa occidentale aveva “più la forza per difendersi da solo né per rappresentare una posizione autonoma”.

Ci si doveva rivolgere “obtorto collo” all’alleato americano, per munirsi di un adeguato “ombrello protettivo” contro ogni possibile pericolo proveniente dall’Est europeo. Ma la possibilità di perdere la propria autonomia, che costituiva il “pericolo” più incombente, ha spinto i Paesi dell’Europa occidentale a far tesoro di quanto nei “campi di prigionia o al confino” alcuni uomini, contrari al nazi-fascismo e alla guerra, avevano elaborato, per assicurare a conflitto concluso un migliore “futuro comune dell’Europa”.

E’ in questa prospettiva che è nato il “Manifesto di Ventotene”, scritto nel 1941 nell’Isola di Ventotene e pubblicato a Roma clandestinamente nel 1944, quando ancora la guerra non era finita; esso, per le ragioni precentemente indicate, è divenuto presto, come sottolinea Giro, il programma guida di una parte dei sostenitori dell’Europa unita, intesa come premessa necessaria, oltre che per salvaguardare la propria indipendenza, anche per il “potenziamento della civiltà moderna”, di cui l’era totalitaria aveva rappresentato l’arresto.

Al Congresso d’Europa dell’Aia, organizzato nel 1948 dal Comitato internazionale dei movimenti per l’Unione europea, presenti figure politiche importanti (come Léon Blum, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Paul-Henri Spaak, Walter Hallstein, Harold Macmillan, François Mitterrand, Raymond Aron ed altri ancora) e presieduto da Winston Churchill, Altiero Spinelli vi ha svolto un ruolo attivo, proponendo la realizzazione di un’unione politica, economica e monetaria dei Paesi dell’Europa occidentale, attraverso la realizzazione di istituzioni federali. Al Congresso erano rappresentate anche altre tendenze che, in luogo del federalismo, proponevano la costituzione di una Confederazione Europea, oppure il governo congiunto di problemi particolari.

Quest’ultima tendenza era sostenuta dai rappresentanti del cosiddetto “pensiero funzionalista”, fiduciosi che per l’Europa fossero più convenienti “integrazioni parziali e progressive”; una corrente di pensiero che alla fine è prevalsa, esprimendo gli uomini che hanno governato la costituzione nel 1951, su proposta dei francesi Robert Schumen e di Jean Monnet, della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio” (CECA). Su queste basi, pur lontane dai contenuti del Manifesto di Ventotene, ha preso il via il lento processo comunitario, sorretto ideologicamente dal Movimento Federalista per l’Europa, che già nel 1949 aveva ispirato la costituzione del Consiglio d’Europa.

Tra i sostenitori delle due principali correnti, quella federalista e quella confederalista, esistevano tuttavia disparità di vedute. Per gli inglesi, ad esempio, l’unione dei Paesi europei doveva significare solo “più stretti vincoli tra le nazioni nel quadro del legame preferenziale con gli Stati Uniti”, qual era quello che si configurava con l’adesione all’Alleanza Atlantica (NATO), costituita nel 1949 e considerata dagli inglesi l’alleanza politico-militare idonea a garantire l’Europa contro ogni pericolo. Tra l’altro, nei primi anni del dopoguerra, la tendenza del Regno Unito, malgrado la perdita di molte delle sue colonie, era quella di privilegiare i propri rapporti con l’area del Commonwealth, tenuta insieme dalla sterlina. Per questo motivo, Londra non condivideva l’idea di costituire delle istituzioni comuni, preferendo le tradizionali vie dei negoziati diplomatici. Sarà questa la causa che renderà il Regno Unito un Paese sempre incerto rispetto alla sincera adesione al disegno europeo, quale quello configurato dal Manifesto di Ventotene; la Gran Bretagna, prima aderirà alla Comunità Europea, in ritardo rispetto ai Paesi firmatari dei Trattati di Roma (condizionando l’adesione al non rispetto di molte regole comunitarie) e, successivamente, uscirà dall’Unione nel 2016, sulla base di una decisione referendaria che ha diviso profondamente gli inglesi.

Per i Francesi, invece, c’era la preoccupazione che il coinvolgimento della Germania nel disegno europeo, soprattutto per la volontà americana di includerla nella NATO, favorendo la sua rinascita, potesse dare luogo a nuove future minacce. La creazione della CECA – afferma Giro – è stata per Parigi “la maniera per rilanciare il ruolo francese in Europa”, attraverso l’imposizione del metodo funzionalista per il governo degli affari comuni, del quale Jean Monnet, membro autorevole del governo francese dell’epoca e uno dei propositori della CECA, era uno dei principali sostenitori. L’alta autorità del carbone e dell’acciaio, svincolata dai governi dei singoli Stati, è divenuta così il nocciolo della futura Comunità Europea, poi trasformatasi, con gli accordi di Maastricht, in Unione Europea. La CECA è stata comunque la prima istituzione comune, con tutti i poteri – afferma Giro – su quel segmento economico, a cui gli Stati hanno devoluto una parte della loro sovranità.

L’Italia, pur essendo un Paese sconfitto, è entrato da subito a far parte della CECA, con l’obiettivo, dato che non era produttrice, ma solo consumatrice di carbone, di “ancorare il Paese all’Europa, farlo uscire dall’isolamento della sconfitta ma anche dargli una prospettiva futura, oltre i miti mediterranei e di potenza fascisti”. A differenza della posizione dell’Italia, quella della Germania era molto diversa; per essa si trattava, non solo di uscire dall’isolamento, ma anche di riaccreditarsi al cospetto del mondo per i gravi reati commessi dal nazismo contro l’umanità; il suo far parte della MATO, per essere utilizzata come “bastione contro l’Oriente comunista”, non era infatti sufficiente per un suo completo riscatto.

A tal fine, il suo coinvolgimento nella CECA ha rappresentato per i tedeschi “un ottimo modo di riacquistare un certo margine di manovra nel mondo e darsi un obiettivo che non li lasciasse incatenati al proprio recente tragico passato”. E’ Stato così che la Germania, in quanto membro della CECA e uno dei Paesi firmatari dei Trattati di Roma, ha potuto ripensare sé stessa, capitalizzando in modo ottimale tutte le opportunità che il coinvolgimento comunitario è valso ad assicurarle, divenendo una delle maggiori potenze economiche mondiali. Questo è il motivo per cui oggi si chiede alla Germania, dopo la riacquistata rispettabilità al cospetto del mondo e dopo essere divenuta, grazie al suo coinvolgimento europeista, una potenza economica di prima grandezza, di assumere la leadership, in termini proattivi, nel senso di prendere il controllo dello stato di avanzamento del processo di integrazione politica per farlo procedere ulteriormente verso il traguardo finale, piuttosto che adeguarsi a situazioni volute da altri.

E’ il caso di ricordare che, per quanto la Germania non sia esente da responsabilità sulla diffusione dello scetticismo maturato dai popoli europei circa la possibilità di addivenire al compimento dell’unità politica dell’Unione Europea, non è assente fra i tedeschi chi pensa che l’abbandono del marco sia stato ampiamente ripagato dai vantaggi conseguiti dall’economia tedesca con l’adozione dell’euro. Ciò è dimostrato dal fatto che, fino all’avvento dell’unione monetaria, i Paesi più deboli dell’Europa potevano acquisire competitività grazie alle svalutazioni della loro moneta; un’arma, questa, che è stata “spuntata”, a vantaggio dell’economia tedesca, con l’adozione della moneta unica.

Dacché è stato adottato l’euro, gli europeisti tedeschi si sono anche chiesti se un’unione monetaria potesse funzionare senza un’unione politica. La situazione in cui versa attualmente il Vecchio Continente evidenzia come l’euro possa concorrere a sconfiggere lo scetticismo circa il futuro dell’Europa e a motivare tutti gli Stati membri a politiche economiche omogenee, ottenibili solo con un’ulteriore rinuncia alla sovranità nazionale. E’ riguardo a questo obiettivo che la Germania può portare a definitivo compimento il suo “ripensarsi” post-bellico, sconfiggendo i “cattivi” comportamenti di chi, solo a parole, si dichiarava favorevole all’unione politica dell’Europa sin dal momento in cui di essa si è incominciato a parlare nel secondo dopoguerra.

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