I guasti dei movimenti ciclici del capitalismo

16 Ottobre 2018
[Gianfranco Sabattini]

Nel modo accademico, ma anche in quello politico, ha sempre “imperversato” il dibattito se l’economia dovesse essere regolata da meccanismi di mercato e da decisioni decentrate, oppure amministrata dal centro da parte dello Stato attraverso la pianificazione, ovvero attraverso decisioni assunte al di fuori del mercato.

L’alternative ha visto schierarsi in pro del mercato, oppure della pianificazione, schiere di sostenitori. Il dibattito ha lasciato in eredità ai contemporanei numerose “verità”, tutte corroborate dall’esperienza vissuta, in fatto di governo dell’economia, negli ultimi duecento anni, dacché, si può dire, è nata la scienza economica.

La prima alternativa, quella che fa riferimento alla primazia del mercato, prevede sistemi di governo dell’economia che non sono mai esistiti, nel senso che tutti i sistemi economici dei quali si ha memoria sono sempre stati un mix di mercato e di controllo statale; ciò perché un “sistema di mercato puro” non garantirebbe, sul piano economico e su quello sociale, il regolare ed equilibrato funzionamento dell’economia. Per contro, un sistema di pianificazione centralizzata, sempre secondo l’esperienza, non riuscirebbe ad assicurare risultati, sul piano economico e su quello sociale, paragonabili a quelli conseguibili con sistemi fondati sull’istituzionalizzazione del libero mercato; proprio per questo, è possibile affermare che, nel mondo, non siano mai esistiti sistemi di governo dell’economia che facessero esclusivo riferimento a sistemi di pura pianificazione centralizzata, in quanto, anche laddove la pianificazione è stata adottata in alternativa al mercato, è sempre stato necessario conservare residui di quest’ultimo.

L’antica questione “mercato contro Stato”, pertanto, è stata dibattuta con riferimento a un problema privo di ogni evidenza storica, in quanto, mancando ogni riferimento esperienziale, il dibattito non ha potuto stabilire la superiorità dell’un sistema rispetto all’altro, dato che, nella realtà delle cose, è sempre stato necessario prevedere un mix di entrambi. Tuttavia, la storia economica, sin dalle origini dell’economia come scienza, ha registrato che il funzionamento dei sistemi economici è stato caratterizzato da “movimenti ciclici”, che, come afferma l’economista belga Paul De Grauwe in “I limiti del mercato”, hanno configurato tale funzionamento caratterizzato dalle oscillazioni proprie di un “grande pendolo”; movimenti che “hanno accresciuto l’influenza dei mercati a spese dei governi”, in determinati momenti, e che poi “hanno portato il predominio dei governi a spese dei mercati”, in altri.

Il XIX secolo, ricorda De Grauwe, ha visto un lungo periodo di espansione dei sistemi economici fondati sulla primazia del mercato; in tali sistemi, denominati capitalistici, il trionfo del mercato è stato inarrestabile, con una produzione di beni materiali aumentata secondo ritmi mai sperimentati precedentemente; ciò è avvenuto proprio in quei Paesi dell’Europa occidentale e dell’America che avevano liberato le loro economie dagli eccessivi “lacci e lacciuoli” d’origine statale. Il dominio dei mercati sembrava non avere ostacoli e limiti; questi però erano destinati ad emergere nel corso del XX secolo. Infatti, dopo la temporanea interruzione durante la Grande Guerra del 1914/1918, la crescita ha teso a ripartire negli anni Venti; ma alla fine dello stesso decennio, nel 1929, è scoppiata la Grande Depressione, con il conseguente crollo dei livelli di benessere e di quelli occupazionali. La marcia senza intoppi dei sistemi caratterizzata dall’egemonia del mercato è giunta così a “una brusca battuta d’arresto”.

Sono stati numerosi coloro che, a seguito della disoccupazione e del diffondesi dell’indigenza di milioni di persone, hanno incolpato della crisi economica l’espansione incontrollata del capitalismo. Molti Paesi hanno ridotto il ruolo del mercato, in alcuni casi addirittura soppresso, o fortemente ridimensionato, da regimi politici dittatoriali (in Unione Sovietica il mercato era stato ridimensionato prima ancora del 1929 e totalmente rimosso dopo questa data, con l’instaurazione della pianificazione centralizzata e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione). Questi ultimi Paesi, secondo De Grauwe, hanno “fatto tendenza”, al punto che, persino negli Stati Uniti, l’Amministrazione di Franklin Delano Roosevelt, inaugurando la politica del New Deal, ha inteso combattere la crisi attraverso investimenti pubblici su larga scale, mentre altri Paesi dell’Europa occidentale, di antica industrializzazione, senza rinunciare ai loro regimi politici democratici, pur chiudendosi all’interno dei loro confini nazionali, hanno provveduto a nazionalizzare le industrie di base. È sembrato che il sistema di mercato fosse giunto “al capolinea” e che “il futuro appartenesse ai Paesi i cui sistemi economici [fossero] controllati dal governo”.

Dopo il secondo conflitto mondiale, grazie a un particolare mix di mercato e Stato, realizzato sulla scorta di una gestione dei sistemi economici secondo modalità suggerite dall’elaborazione teorica di John Maynard Keynes, nella prospettiva di una generalizzata conciliazione delle esigenze connesse con il rispetto di tre fondamentali principi (efficienza nell’impiego dei fattori produttivi, equità nella distribuzione del prodotto sociale e libertà decisionale assicurata a tutti gli attori sociali, è stato possibile rilanciare un processo di crescita trainato dagli investimenti pubblici resisi necessari per la ricostruzione post-bellica.

Inoltre, la percezione del fatto che il sistema di mercato avesse fallito nel garantire una giustizia distributiva condivisa è valsa a giustificare l’intervento dello Stato, non solo riguardo alla ricostruzione, ma anche per la realizzazione di un sistema di protezione sociale (welfare State), finalizzato a coprire l’intera popolazione contro i rischi ai quali era involontariamente esposta (disoccupazione, malattie e inabilità). E’ stato così che, dopo il 1945, i Paesi, retti da regimi democratici, hanno beneficiato della crescita precedente e hanno visto migliorare il livello di benessere delle proprie popolazioni durante i “gloriosi trent’anni” 1945-1975.

Ancora una volta, però, la storia, secondo De Grauwe, ha preso una direzione diversa. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta è emerso che l’intervento dello Stato, comportando una crescente necessità di risorse e la loro sottrazione per via fiscale alle esigenze della produzione, ha avuto l’effetto di rallentare il processo di crescita, ostacolato, tra l’altro, anche dalle mutate condizioni internazionali in presenza delle quali tale processo si era svolto sino ad allora.

La pervasività dell’intervento pubblico nel funzionamento del sistema economico ha causato la formazione di un “movimento di liberazione” del mercato. Ovunque, afferma De Grauwe, i mercati hanno aumentato la loro autonomia rispetto allo Stato, costringendo i governi, che possedevano una larga fetta dell’economia, a privatizzare “le aziende pubbliche. Le compagnie telefoniche, le ferrovie, le fabbriche di automobili, le banche e le società di servizi [pubblici] che erano state nazionalizzate nel corso dei pochi decenni precedenti venivano di nuovo privatizzate”. Il mercato internazionale è stato liberalizzato, creando le basi per la successiva globalizzazione delle economie nazionali; come nel XIX secolo, il rilancio del processo di crescita è stato salutato come il trionfo del mercato, una volta liberato dagli impedimenti originati dall’intervento dello Stato nella gestione del sistema economico.

La liberazione del mercato operata nel corso degli anni successivi alla fine degli anni Settanta ha però provocato, non solo la spettacolare ripresa della crescita economica, coinvolgendo nel processo di miglioramento delle condizioni materiali Paesi che sino ad allora erano rimasti esclusi, ma anche la diffusione e l’approfondimento della disuguaglianza distributiva e della povertà; fenomeni che, negli anni precedenti, erano stati, se non assenti, certamente contenuti o ridotti. Ancora una volta, perciò, il capitalismo e il sistema di mercato sembravano avere la meglio contro ogni possibile ostacolo; ma proprio nel momento in cui sia il mercato che il capitalismo celebravano i propri fasti, è sopraggiunta la crisi del 2007/2008.

Gli effetti che si sono avuti dopo la Grande Depressione del 1929 sono stati molto diversi rispetto a quelli verificatisi dopo la Grande Recessione del 2007/2008: la produzione ha continuato a diminuire per alcuni anni dopo l’inizio della crisi del 1929; la ripresa, almeno in una parte dei sistemi economici interessat, è stata invece molto più rapida, dopo la crisi del 2007/2008. Ciò è accaduto perché gli economisti e i responsabili della gestione del sistema economico, tenendo conto dell’esperienza vissuta in occasione della Grande Depressione, invece di porre un freno all’allargamento della circolazione monetaria, hanno favorito l’immissione di nuova moneta e l’aumento dei disavanzi pubblici. Solo nell’eurozona, che non ha fatto ricorso ad una politica monetaria espansiva, la fuoriuscita dalla crisi è stata molto più lenta e contenuta.

Ciò che comunque si può dire, secondo De Grauwe, è che, dopo l’esperienza della Grande Recessione, l’idea della presunta supremazia del mercato rispetto allo Stato sia destinata a perdere definitivamente credito. Riguardo al futuro del capitalismo, resta tuttavia l’interrogativo, se la disuguaglianza distributiva e la povertà di cui esso (il capitalismo) è portatore siano fenomeni solo temporanei; oppure, se essi siano destinati a durare nel tempo e ad assumere dimensioni sempre maggiori, in funzione dell’aumento dell’ampiezza e della frequenza delle oscillazioni del pendolo dell’economia, per effetto dell’aumentata complessità dei sistemi economici. A parerei De Grauwe, considerate le dinamiche attuali e quelle plausibilmente prevedibili per il futuro, i fenomeni della disuguaglianza distributiva e della povertà sono destinati a peggiorare.

In questa prospettiva, perciò, il futuro del sistema di mercato e del capitalismo non appare “molto roseo”, a meno che non maturi, a livello globale, il convincimento della necessità di un governo riformista del modo di produzione capitalistico, che sappia porre un valido freno alle oscillazioni del pendolo dell’economia; pena, se ciò non dovesse accadere, conclude De Grauwe, un futuro devastante per lo stesso capitalismo.

Al fine di rimuovere dall’immaginario collettivo questo scenario negativo, secondo l’economista belga, sarebbero necessarie due condizioni: la prima consistente nel buon funzionamento delle istituzioni democratiche, sia per diminuire la disuguaglianza distributiva, sia per evitare che il capitalismo continui a provocare “economie esterne” ai danni delle popolazioni, soprattutto per gli alti e crescenti costi ambientali che esso comporta; la seconda condizione è che tutti i Paesi integrati nell’economia globale siano propensi a condividere insieme le regole da adottare per il contenimento degli esiti negativi provocati dal sistema di mercato.

A De Grauwe non sembra che queste due condizioni abbiano buone probabilità di essere soddisfatte, per cui si può plausibilmente prevedere che il capitalismo raggiunga in un futuro molto prossimo un punto di non ritorno; perciò, se l’umanità non passerà, in tempi brevi, ad un’azione globale di tipo riformistico, per regolare e contenere gli esiti negativi delle oscillazioni del pendolo dell’economia, le generazioni presenti non potranno fruire neppure della consolazione di aver almeno provato a salvare il mondo dalla catastrofe.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI