Il carcere non può cancellare i diritti delle persone

16 Dicembre 2014
Cella
Gianfranca Fois

Il filosofo utilitarista J. Bentham nella sua opera Panopticon delinea una riforma dell’ordinamento carcerario legata anche all’aspetto edilizio e ritiene la sicurezza così importante da dover essere perseguita persino a scapito della libertà. Infatti, secondo Bentham, solo in una società sicura può svilupparsi la felicità.
Era il 1787 e il filosofo inglese non sapeva che questa sua idea avrebbe connotato la società a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo, prima negli Stati Uniti poi anche in Europa.
Negli Stati Uniti, ci racconta Jonathan Simon, docente alla facoltà di Giurisprudenza di Berkeley, che le politiche di sicurezza sono diventate politiche di controllo sociale contro determinati gruppi etnici: afroamericani, latinos, persone di origine araba, ma anche bianchi poveri che globalizzazione e politiche neoliberiste hanno spinto ai margini della società. In questo modo alle politiche sociali portate avanti pur con molte contraddizioni nei primi decenni del secondo dopoguerra si è sostituita la politicizzazione delle politiche criminali. E il potere attacca la paura della criminalità più che la criminalità stessa, complici mezzi di comunicazione e politici che enfatizzano episodi criminali o di terrorismo o, come è avvenuto anche in Italia, criminalizzano gli immigrati senza permesso di lavoro.
Si diffonde così un clima di paura che aumenta la richiesta di maggior sicurezza da parte di cittadini spaventati che Simon individua nella middle class statunitense. In questo modo si giustifica l’approvazione di leggi, misure antidemocratiche (il governo della paura) e si istituiscono prigioni private, gated communities, marchingegni anti crimine e antiterrorismo con un giro d’affari immenso e superiore al traffico d’armi. Ciononostante gli USA hanno una percentuale altissima di detenuti.
Sono dinamiche che mi sembra si stiano producendo anche in Italia aggiungendosi alla situazione, indegna per un paese civile, delle nostre carceri. Infatti recentemente la Comunità Europea ha minacciato sanzioni e multe contro l’Italia per il loro sovraffollamento e per i trattamenti degradanti anche se, pochi mesi fa, ha riconosciuto lo sforzo compiuto dal nostro paese per risolvere il problema.
Ma le carceri italiane restano il luogo della sopraffazione e della violenza, con grave danno per la nostra democrazia sia perché ai carcerati contemporaneamente al diritto alla libertà vengono tolti gli altri diritti inalienabili della persona, sia perché in grandissima maggioranza provengono dagli strati più poveri ed emarginati sia perché tantissimi si trovano ad esempio reclusi sulla base di una legge (Fini Giovanardi) che è stata dichiarata incostituzionale.
Per questo bene ha fatto Franco Corleone (garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana) a mettere in evidenza lo stretto legame tra carcere e democrazia nel corso di uno degli ultimi incontri programmati all’interno del Mese dei diritti umani organizzato dalle numerose associazioni che aderiscono al Comitato Stop Opg Sardegna.
Lo stato però non riesce e non vuole dare risposta alla secolare questione carceraria (Turati nel 1904 durante una seduta alla Camera diceva: Le carceri italiane sono, nel loro complesso, la più grande vergogna del nostro paese. Esse rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si abbia mai avuto.); inoltre non vuole individuare e proporre strumenti alternativi che abbattono l’indice di recidiva come sperimentato in altri Paesi. L’unica risposta è quella emotiva e populistica, per usare le parole del giurista Glauco Giostra, di costruire nuove carceri che, come ampiamente dimostrato da ricerche di sociologi e criminologi e da interventi come quello della Suprema Corte degli Stati Uniti in California, non risolvono il problema.
Infatti di fronte a un maggior numero di carceri la popolazione carceraria continua ad aumentare rendendoli vani, senza contare che i nuovi istituti di pena vengono costruiti in luoghi isolati, difficili da raggiungere dai parenti dei reclusi e dalle associazioni che si occupano dei carcerati. Non ultimo la decisione di costruire nuove carceri e la loro costruzione non avvengono in modo trasparente. Viene subito alla mente il caso del recente carcere di Oristano con vistosi difetti di progettazione e costruzione.
Infine una riflessione sull’uso delle parole. Anzitutto, come ricordato da Corleone, l’uso esagerato di diminutivi riferito ai carcerati (scopino, secondino, domandina ecc.) partecipa della infantilizzazione e vittimizzazione dei detenuti che in questo modo non riescono a rielaborare criticamente il passato e proiettarsi nel futuro, momenti importanti per la loro riabilitazione.
Aggiungo anche l’eccessiva disinvoltura, quando non si tratti di strategia ben definita, da parte dell’informazione nell’uso di parole slogan che non corrispondono alla realtà, un esempio per tutti “svuota carceri” a proposito dei provvedimenti adottati per far uscire dal carcere quanti non vi sarebbero dovuti stare o quanti si erano macchiati di pene lievi. E’ passata invece l’idea che si sia trattato dell’uscita indiscriminata dal carcere di pericolosi criminali.

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