Il dovere della memoria

1 Febbraio 2009

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Gianluca Scroccu

«Quando rimarremo soli a raccontare l’orrore della Shoah, non basterà dire “mai più!”, né rifugiarsi tra le convenzioni della retorica. Serviranno gli strumenti della storia e la capacità di superare i riti consolatori della memoria». Lo afferma, con straordinaria efficacia, lo storico David Bidussa nel suo ultimo, prezioso libro dal titolo “Dopo l’ultimo testimone” appena pubblicato da Einaudi. Il 27 gennaio non ricordiamo infatti solo i morti nei campi di sterminio, ma la necessità che noi vivi ci interroghiamo su quello che è successo in Europa negli anni Quaranta. E questo dobbiamo farlo nel momento in cui stanno scomparendo i testimoni diretti dell’Olocausto e ci avviciniamo al punto in cui non avremmo più modo di sentire dal vivo i loro drammatici e commoventi racconti. Per fortuna la ricerca storica continua ad occuparsi della Shoah con nuovi studi e nuove suggestioni interpretative che hanno permesso di indagare meglio la genesi del genocidio, andando oltre le interpretazioni semplicistiche che concentravano tutta l’attenzione su Hitler e sviscerando ad esempio le forme della violenza nazista nelle zone di occupazione e il coinvolgimento diretto di tanti cittadini comuni nel meccanismo dello sterminio. Perché i carnefici non furono solo tedeschi o nazisti imbevuti dall’ideologia hitleriana, ma anche uomini e donne che conducevano esistenze tranquille. Quelli stessi cittadini che diventarono nazisti  nella pacifica città di Thalburg (Nordheim) come si racconta nel bellissimo e oramai classico lavoro di William S. Allen, “Come si diventa nazisti”: un mutamento non percepito, ma che si insinuò come un cancro in tranquilli cittadini della classe media e operaia che di fronte alla crisi politica ed economica della Repubblica di Weimar non ebbero esitazioni, per trovare risposte alla loro paura e alla crescente sensazione di insicurezza sociale, nell’abbracciare le idee di Adolf Hitler. La ricerca storica sulla Shoah è un percorso lungo, che probabilmente non risponderà mai completamente alla domanda: come è potuta verificarsi una tragedia come Auschwitz? Un discorso che interroga anche il nostro vissuto nazionale di italiani, tra rimozioni, “armadi della vergogna”, dimenticanze che rischiano di non far comprendere alle nuove generazioni quale sia stato il peso di tanti italiani nel progetto di sterminio. Una catastrofe antropologica sancita dalle vergognose leggi razziali del 1938 volute da Mussolini e da riviste come “La Difesa della Razza” di Telesio Interlandi (per il quale si rimanda al bel saggio omonimo di Francesco Cassata, uscito anch’esso per Einaudi pochi mesi fa). Il giorno della memoria ogni anno ci mette di fronte al fatto che l’uomo, in determinate condizioni storiche, può rivelare la sua diabolica capacità di essere crudele perché ritiene che dei suoi simili siano inferiori e non meritino di stare al mondo. È un evento unico della storia del mondo, che ha segnato profondamente il Novecento, e che interroga ancora oggi le nostre coscienze. Ecco perché la conoscenza storica su quella tragedia non può fermarsi, pena la caduta nello stereotipo o in spericolate comparazioni storiche. E questo proprio oggi che l’antisemitismo torna prepotentemente alla ribalta, superando le contingenze temporali e sfruttando tragedie come quella di queste ultime settimane nella striscia di Gaza. Un solo esempio. Mi ha colpito molto la lettura di uno straordinario quanto terribile reportage di Paolo Rumiz dal titolo “L’antisemita che vive in mezzo a noi”, pubblicato su “Repubblica” del 21 gennaio scorso. L’autore racconta delle dichiarazioni da lui carpite ai pendolari del treno Trieste-Mestre-Milano; frasi come quella di un signore secondo il quale “quelli lì, gli ebrei, credono di essere impuniti e fanno quello che vogliono” o, ancora, un’anziana sui settanta, che senza problemi, sosteneva che “loro hanno crocefisso nostro Signore…non c’è da aspettarsi altro”. Un altro ragazzo, con la Padania in mano, nel mentre sbraitava contro il “potere ebraico” mettendo però nello stesso calderone “quegli arabi dei  Palestinesi, o gentaglia come gli zingari e i rumeni” . Un articolo che ci dimostra bene come questo nostro Paese, che vede sempre più sfilacciarsi il suo tessuto etico, sancito dalla Costituzione, oramai stia diventando la nazione degli stereotipi e del messaggio veicolato dalla banalità del linguaggio dei format televisivi. Forse stiamo dimenticando che il nazifascismo è potuto proliferare anche grazie ad un brodo culturale di luoghi comuni alimentati dalla paura. Scrisse Primo Levi: “Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo”. Ecco perché è importante ricordare.

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