Il futuro del passato

1 Gennaio 2008

Bronzetto dal nuraghe Nurdole di Orani
Marcello Madau

Non ho molta voglia di esercitarmi nell’operazione, a metà fra l’entusiastico e l’onanistico, di indicare i ritrovamenti più importanti del 2007. E’ il primo numero dell’anno nuovo, e bisogna augurarsi che si incrementino le tensioni positive manifestatesi, e che esse ci siano di aiuto per contrastare le non poche tendenze negative.
Le questioni principali, più serie di qualche coccetto: la crisi del sistema pubblico della tutela e della formazione universitaria, l’archeologia-spettacolo, la discussione sul rapporto fra archeologia e identità. Ma è anche vero che quest’anno si è ripreso a discutere in maniera non paludata, a litigare seriamente, come si conviene alla scienza. Ho ritrovato un po’ di passione partecipando in un piccolo paese come Villanovaforru, da decenni impegnato grazie al suo nuraghe e al suo Museo nel campo del patrimonio archeologico, ad un grande convegno, I Nuragici e gli altri.
Due archeologi della terra generazionale di mezzo, Paolo Bernardini e Mauro Perra, confortati da un sensibile Comune, hanno organizzato un’incontro di tre giorni franco, vivace, anche duro, fra diverse scuole e generazioni di molti paesi. Sala stracolma. L’archeologia è una disciplina appassionante, assai utile per leggere la società e la storia, per interrogare oggetti senza incorrere negli occhi e nei gesti a volte traditori delle persone che li hanno prodotti, e capirne le funzioni; ma non rinunciamo ad interrogarci su funzione e utilità di tale lavoro, su natura e destino di ciò che produce: oggetti mentali complessi che orientano verso il bene comune, o verso una crescita ulteriore dell’alienazione. Mi pare che al giorno d’oggi sia necessaria una critica radicale all’archeologia-spettacolo, che, grazie ai suoi padroni (talora accademici “insospettabili”) e ai loro lacchè, sta procedendo con grande velocità, confermando le lucide profezie di Guy Débord.
Lo spettacolo è forma privilegiata di ricchezza per pochi; generalmente al di fuori della ‘fabbrica dei saperi’, crea falsa coscienza. Nel tubo catodico, sotto l’egemonia del Format omologato, il confine fra divulgazione e spettacolo esoterico è sempre più labile, e tutto è ugualmente credibile.
C’è un salto di qualità rispetto alla figura guascona di Indiana Jones: i suoi discendenti sono meno affascinanti di Harrison Ford, ma più incisivi.
Le ricerche dell’identità sono in gran parte assorbite entro la forma spettacolo e l’invenzione della tradizione: il fenomeno, di ampia attestazione europea, attraversa anche la nostra isola. Le spinte del mercato verso identità di forte impatto e di veloce, ma intenso, consumo emozionale (Sardegna antica, Sardegna speciale, Sardegna irripetibile, Sardegna isola non trovata) nutrono la rivalsa di troppo lunghi isolamenti e perifericità culturali, costituendone l’altra faccia della medaglia: a ciò va data risposta colta, ma intransigente, nell’interesse di tutti, comprese le frange più avvertite dell’indipendentismo democratico, perché l’identità è un discorso troppo serio per abbassare la guardia sul metodo scientifico. L’urgenza di costruire una memoria culturale genera, su quello che sembrava un retroterra sanamente laico, un nuovo integralismo: le ricostruzioni troppo veloci, non sempre (anzi, di rado) così urgenti e necessarie, sono mediate dall’ideologia, e la stessa velocità con la quale si pretendono ne è un indizio preoccupante. La spettacolarizzazione dell’archeologia, il suo legittimarsi nelle urla isteriche o nei fasci di luce improvvisi entro antichi pertugi, il suo modificare geneticamente i dati e ignorare ogni evidenza scientifica crea una linea di continuità fra lupe, lupercali, bronzetti di buoi diventati vitelli d’oro per esigenze messianiche, isole platoniche; colate di fango vaste travolgono la ferma protesta di chi non ne ha mai trovato traccia nell’esplorazione scientifica archeologica mediante l’anatema del ‘si rinchiudono nella torre d’avorio’. Nella sua attuale fase il capitalismo è riuscito, mediante la spettacolarizzazione dell’industria culturale, a concretizzare, con un’operazione addirittura imprevista, il sogno proibito di generazioni di alchimisti nella loro ricerca della grande opera, trasformando il fango in oro.
La presunta torre d’avorio è in realtà una casa malandata (ora, in Sardegna, è data in condominio unico a tutte le Soprintendenze archeologiche), sottopagata, che sta crollando: i suoi lavoratori cognitivi godono di pessimi salari statali (giusto il posto fisso), e talora i ‘collaboratori esterni a vita’ sono dagli stessi, e spesso dal sistema, ricattati e sottopagati. Anche per questo l’obiettivo di una totale competenza regionale acquista per qualcuno forma di speranza liberatoria. E la tutela? Ci sarà tempo…
L’indebolimento della storica struttura della tutela produce, sullo sfondo magico di un principe finalmente disvelato in orrenda rana, un altro magico rovesciamento alchemico: chi produce il sapere, “operaio” cognitivo delle istituzioni archeologiche o precario a vita, non ha peso, e il sapere stesso viene depotenziato, nella tutela come nell’Università, a vantaggio della spesa pubblica. Il problema è Dini, o Padoa Schioppa? Aumenta piuttosto il ruolo di chi organizza la ricchezza dell’industria culturale, legittimato dal consenso di chi subisce l’inganno ideologico.
Allora alcuni auspici per il 2008: una crescita del dibattito critico, il riconoscimento della figura professionale dell’archeologo, il miglioramento degli standard formativi, la riconquista del patrimonio archeologico come bene comune.. A questo punto la ‘grande scoperta’ sarebbe meglio accetta e più condivisa. C’è da capire se resta qualcosa di quella traccia progressista che vivacizzò le scuole di archeologia negli anni Settanta, se la lezione di Ranuccio Bianchi Bandinelli possa essere riattualizzata da un movimento serio, magari togliendola ad episodici usurpatori.

P.S. Nel libro di Bianchi Bandinelli pubblicato nel 1974 da De Donato (AA., BB, AA. e B.C.. L’Italia storica e artistica allo sbaraglio) si criticano “i programmi di valorizzazione basati su una considerazione consumistica del museo e del monumento”; si denuncia la perdita della “ serie di correlazioni che ogni oggetto archeologico ha con il contesto da cui è estratto”, mentre “il pezzo di esposizione si isola in un’artificiosa atemporalità e diviene idolo: non oggetto di conoscenza ma oggetto potenziale di possesso”. E che “non vi è concetto più incerto, più discutibile e più mutevole di quello della bellezza”. Che deriva ideologica oggi, persino in campo progressista.

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