Il ritorno di Lula

16 Marzo 2021

[Maurizio Matteuzzi]

L’annullamento dei quattro processi e delle due condanne, con annessa restituzione dei diritti politici, deciso lunedì 8 marzo dal giudice del Supremo Tribunal Federal (in pratica la Corte suprema brasiliana) Eduardo Fachin, non solo ha rimesso in campo l’ex-presidente Lula da Silva, ma ha dato il segnale che la campagna elettorale per le presidenziali dell’ottobre 2022 è cominciata.

Sarà una campagna elettorale drammatica, di fuoco – combattuta nel pieno della strage deliberatamente provocata dalla criminale gestione negazionista della pandemia di covid (2000 morti al giorno, 270 mila morti finora col Brasile secondo solo agli USA) e della peggior crisi economica in 24 anni -,  perché secondo i sondaggi Lula è l’unico, al momento, in grado di battere  la ricandidatura di Jair Bolsonaro, l’ultrà di estrema destra che proprio grazie a quei processi montati ad hoc dal super-giudice Sergio Moro nella sua “Operação Lava Jato” (Autolavaggio), nel 2018 riuscì a sbarazzarsi di un Lula in prigione  ma anche allora in testa nei sondaggi, e ad arrivare inaspettatamente al palazzo presidenziale di Planalto.

La guerra si annuncia senza quartiere e non è per nulla improbabile che Bolsonaro, in caso di sconfitta, segua le orme del suo idolo caduto, Donald Trump, e chiami i suoi all’assalto fisico dei palazzi e delle sedi delle istituzioni. Lui stesso, cui nonostante tutto resta un consistente 25-30% di appoggio incondizionato e fanatizzato, ha più volte incitato la piazza a muoversi per chiudere il Congresso (che controlla grazie a nomine mirate ma non completamente) e la Corte suprema (considerata, come il giudice Fachin, “troppo vicina al Pt e ai comunisti”). La piazza, quella in carne e ossa e quella virtuale dei social con hashtag del tipo #intervençãomilitarcombolsonaronopoder, e i militari di cui l’ex-capitano dell’esercito è una creatura e che lo tengono in ostaggio.

Per i militari non ha bisogno di andare lontano. Più o meno la metà del suo governo è composta da generali (il vicepresidente della repubblica, il ministro della salute…), un generale guida la Petrobras, ci sono 3000 militari a occupare cariche politiche ai diversi livelli. Incredibile ma vero ci  sono più militari impegnati in politica oggi di quanti ce ne fossero nei 21 anni di dittatura militare dal ’64 all’85. E non sono come i vertici militari USA che dopo l’assalto degli ultrà trumpiani a Capitol Hill si schierano contro Trump e per la costituzione. No. In Brasile le cose  non vanno così. Il Brasile è l’unico paese dell’America latina che celebra ancora il giorno del golpe militare del ’64, il 31 marzo, e che non ha mai fatto i conti con le aberrazioni della dittatura (con l’unica eccezione di un torturatore di nome  Brilhante Ustra, colui che torturò personalmente Dilma Rousseff, al quale il deputato Bolsonaro dedicò il suo voto favorevole all’impeachment della presidente Dilma nel 2016).  Nell’aprile del 2018, alla vigilia della decisione della Corte suprema sulla scarcerazione di Lula, il generale Eduardo Villas Boas, allora capo delle forze armate, piazzò due tweets intimidatori per ammonire gli 11 giudici a fare molta attenzione. Il 9 marzo scorso, un giorno dopo la sentenza che scagionava e rimetteva in campo Lula, il generale della riserva Eduardo Rocha Paiva ha postato sul sito del Club Militar un testo in cui critica apertamente la decisione del giudice Fachin e ricorda a tutti che con essa la Corte suprema “ha ferito a morte l’equilibrio dei poteri” e che “il punto di rottura si approssima”. Lo stesso giorno un altro  generale di nome Santa Cruz  ha postato un altro testo per esprimere la sua “repulsione degli estremisti” (ovvio chi sia l’estremista) e assicura che “la decisione del STF polarizza la politica nazionale” mentre “il Brasile è stanco di corruzione, demagogia, populismo e  truffe elettorali”.

Da qui all’ottobre 2022 può succedere di tutto. L’operazione Lava Jato è un vaso di Pandora ancora lontano da avere esaurito tutto il suo malefico contenuto. La sentenza del giudice Fachin, contro cui il Procuratore generale della repubblica ha fatto ricorso, non ha scagionato Lula dalle accuse di corruzione ma ha semplicemente e tardivamente stabilito una ovvietà: che il giudice Moro e i suoi colleghi della task force anti-corruzione di Curitiba non avevano la giurisdizione sul caso , che spettava di diritto alla magistratura federale di Brasilia, e che tutto il castello delle accuse (peraltro piuttosto fragile anche senza voler negare la dilagante e generalizzata corruzione che da sempre asfissia il Brasile) aveva come unico o principale obiettivo quello di sbarrare la strada a una probabile rielezione di Lula,

L’operazione che portò all’impeachment di Dilma nel 2016 fu un “golpe blando” parlamentare (favorito da una pessima gestione di Dilma, pessima ma non corrotta), l’operazione Lava Jato che portò nel 2018 all’incarcerazione di Lula e alla vittoria di Bolsonaro fu una sorta di golpe giudiziario affidata al super-giudice Moro dai poteri forti di sempre, dalla grande stampa, dalla rabbia popolare per la crisi economica, da quel cancro diffuso che sono le potentissime e mefitiche sette pentecostali, dai militari.

Ora che Lula è libero bisogna vedere che succede. Bisogna vedere se riuscirà di nuovo a connettersi con l’anima profonda delle masse popolari con cui il Partido dos Trabalhadores aveva perso il contatto. La grande stampa, Globo e Folha di San Paolo in testa, che avevano tirato la volata a Bolsonaro ma che poi di fronte al suo spaventoso tasso di incapacità, criminalità e corruzione (“basta piagnucolare” sui morti, sulle mascherine, sui distanziamenti, sui vaccini, “cose da froci”, tutti fuori, tutto aperto, tutti a lavorare, “tanto prima o poi dobbiamo morire tutti”), di lui non ne può più, denuncia però “l’errore fatale” del giudice Fachin, riscopre i pericoli, come dice  il generale Santa Cruz, della “polarizzazione nazionale”, dei “due populismi” contrapposti, ribattezzati ora “bolso-lulismo” per coprire “l’anti-lulismo” di sempre.

Lo scenario del Brasile rimanda a quello del 2016 e del 2018, Ma è  anche peggio. Perché da qui al 2022 in più c’è e ci sarà il virus che fa strage, ci sono i 2000 morti ogni giorno, i 270 mila morti finora, la contagiosissima “variante P1” del covid 19 che fa del Brasile bolsonarista lo scandaloso “laboratorio naturale” della pandemia.

Trump, iI suo idolo, ha dovuto fronteggiare due processi di impeachment, contro Bolsonaro sono  già una settantina le  denunce presentate in Congresso, molte per “incapacità mentale”, alcune per crimini contro l’umanità e perfino per genocidio. Anche se è improbabile, al momento, che vadano avanti.

Basterà, riuscirà Lula a dominare uno scenario simile?

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