L’arroganza non si coniuga con la sobrietà

23 Marzo 2012

Marco Ligas

Il professore ha completato l’opera. Non voleva essere da meno di Marchionne, l’uomo ritenuto capace di ridimensionare l’influenza che la cultura marxista ha esercitato nel nostro paese. Lo ha persino superato, pur in un rapporto di complementarietà, legittimando le sue scelte e sostenendo che non è compito del governo interferire sull’operato dell’azienda Fiat: al governo spetta piuttosto quello di agire al di fuori della Costituzione trasformando l’Italia in un paese fondato non più sul lavoro ma sul mercato e sugli interessi del capitalismo finanziario.
Con la cancellazione dell’articolo 18 il professore ha voluto dimostrare che è lui, non Berlusconi, il vero artefice della rivoluzione liberale; in realtà mai un concetto è stato usato in maniera così impropria e ingannevole. Neanche Sacconi è stato capace di tanta presunzione. Già, perché considerare esemplare, in quanto derivante da una rivoluzione liberale, una società sempre più propensa ad organizzare la distribuzione della ricchezza in modo che il 5 o il 10% della popolazione disponga del 50% di essa è davvero inqualificabile e offensivo.
Intanto, approfittando del clima creato con le celebrazioni unitarie, la Ministra della Giustizia ha voluto completare il lavoro del governo ribadendo una continuità con un’antica ispirazione savoiarda: quella di considerare le terre d’oltre mare come colonie per trasformale in carceri speciali. Verosimilmente perché non venga in mente ad altri scalmanati come quelli della Vinyls di occupare quelle isole e trasformarle, con la scusa della protesta, in luoghi di vacanza per il fine settimana delle loro famiglie!
Riflettendo sulla trattativa legata alla riforma del lavoro non è stato difficile ipotizzare l’esito finale. Quando mai un negoziato può essere considerato credibile se una parte, quella che dispone del potere decisionale, sostiene sin dall’inizio che pur ritenendo utile il confronto con i suoi interlocutori spetterà solo ad essa trarne le conclusioni? Le uniche indicazioni (o imposizioni) accolte dal nostro governo sono state quelle della Bce, del Fondo monetario e delle banche. Come spirito nazionale non c’è proprio male. Il solo interlocutore interno di Monti è stata la Confindustria. Il confronto con le altre parti sociali si è trasformato rapidamente in un rapporto formale e le stesse organizzazioni sindacali sono state tenute ai margini come se non fossero in gioco i diritti di milioni di lavoratori.
È molto importante che la Cgil abbia ritrovato la sua unità e abbia proclamato uno sciopero generale sottolineando come la riforma del mercato del lavoro non possa essere identificata con la cancellazione dell’articolo 18; anzi questo articolo va proprio mantenuto così com’è, il vero cambiamento potrà esserci solo con l’abolizione del precariato e la creazione di nuovi posti di lavoro. Purtroppo ancora una volta la rottura si è verificata con le altre organizzazioni sindacali, sempre disponibili ad essere componenti sussidiarie del governo e della Confindustria. Forse queste organizzazioni attendono una crisi della Cgil e sperano di accogliere al loro interno i dissidenti del più grande sindacato italiano. Ma questa aspettativa, se davvero sperata, rischia di rimanere un’illusione perché i lavoratori appartenenti a tutte le organizzazioni sindacali dimostrano di averne abbastanza dell’arroganza di questo governo.
È un’attenzione che dovrebbe preoccupare anche il Pd: non è più tempo di barcamenarsi e di mantenere in piedi un’unità sempre più fragile. La determinazione di Enrico Letta o di Valter Veltroni è sempre più lontana dai bisogni di milioni di lavoratori, serve una svolta e un’alleanza con chi ha sempre pagato i prezzi più alti delle crisi.

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