L’accabadora di Maupassant

8 Novembre 2022

[Marinella Lőrinczi]

Il primo novembre scorso, al telegiornale regionale, hanno presentato per l’occasione l’elegante volume curato da più autori, intitolato Accabadora, mito e realtà. Storia e reperti di un ritrovamento (Monastir, Isolapalma-Grafiche Ghiani, luglio 2021).

È stato realizzato con il contributo della Fondazione di Sardegna. A qualche mese dalla pubblicazione sono apparse recensioni giornalistiche entusiastiche, tra cui quella pubblicata dalla “Nuova Sardegna” (26 sett. 2021, col titolo C’è la prova: s’accabbadora non è solo leggenda… viene svelato il ritrovamento di alcuni strumenti utilizzati da questa misteriosa figura), ma la TV ha tardato con l’informazione per oltre un anno. Misteriosa figura: ok. Strumenti da lei utilizzati: ok. Ritrovamento: ok. Sulla prova che dimostrerebbe che s’accabadora non è solo leggenda: qualche o tanta perplessità, per come viene presentata e descritta nel volume. Naturalmente molte belle foto.

Riassumendo la narrazione e il ragionamento esposti nel volume, a uno degli autori (un medico) era stato consegnato un mazzolu (martello di legno), ritrovato – si disse – durante il restauro di una vecchia casa. Su di esso vengono notate alcune chiazze scure, che sembrano sangue raggrumato, e infatti, una volta analizzato, lo è ed è umano. Per poter accedere al luogo del ritrovamento, alla persona donatrice fu garantito l’anonimato e la non divulgazione del nome della località. In presenza di testimoni, tra cui un medico legale, la nicchia contenente gli oggetti fu esaminata.

Gli altri reperti sono un tronchetto di legno avvolto (chissà perché, ma poi vedremo) in ritagli di giornali degli anni ’20; un rosario con le parti metalliche arrugginite; una moneta da 10 centesimi dei primi del Novecento e altro ancora, ma meno importante. Su di un foglio, scritti a matita “di pugno dalla accabadora”, figurano i “nomi delle vittime di una accabadora” (pp. 67-69), ancora leggibili dopo quasi un secolo di buio e di presumibile umidità (dipende dalla struttura del muro). Sintetizzando, ciò che deve essere dimostrato (l’esistenza e l’operato della accabadora che sopprime moribondi) diventa la premessa dell’ipotesi e della dimostrazione.

Quanto alla presenza del rosario, “verosimilmente s’accabadora recitava il rosario nel tragitto percorso per arrivare dal moribondo” (p.71) poiché “la religione cattolica era ben consolidata nella cultura della Sardegna del 1900” (chi l’avrebbe mai pensato!). La moneta, invece, “potrebbe rappresentare la paga simbolica per il suo lavoro” (p.72). E i pezzi di giornali per avvolgere certi oggetti sono stati utilizzati – suppongo – per dimostrare ai futuri ritrovatori dei reperti che questi sono stati nascosti in quegli anni; indicano, infatti, secondo gli scopritori, “la data in cui collocare il periodo in cui l’accabadora ha operato, o forse, ha smesso di svolgere la sua missione” (p.72).

Ingenuità grossa è, però, far pensare al lettore che oggidì certe famiglie non possano ancora custodire nei loro archivi domestici fogli o libri stampati agli inizi del Novecento, o persino una monetina di quel tipo: peraltro lo stato di conservazione di quei ritagli ritrovati nella nicchia non depone a favore di un nascondiglio quasi secolare, buio e certamente non asciutto. Quanto ai resti ematici, il patologo intervistato al TG ha detto che provengono sì da un corpo maschile anziano, ma non ha detto a che periodo risalgano; specificazione del resto inutile, poiché lo testimonierebbero le date dei giornali. La circolarità del ragionamento è perfetta.

Nell’introduzione al volume Accabadora …, 2021, viene ovviamente citata la immancabile ‘testimonianza’ ottocentesca del gesuita Antonio Bresciani, che ho già avuto modo di controllare. Avevo così potuto constatare (nel 2021) che essa non viene solitamente riprodotta con la dovuta cura. Bresciani (1798-1862), autore di Dei costumi dell’isola di Sardegna … (I ed. 1850), non “trae ulteriore conferma [del fenomeno accabaduriale] dai colloqui avuti con diversi sacerdoti e una nobildonna che rievocò per lui lontane vicende familiari, di cui era stata diretta testimone”  (Accabadora …, 2021, p.15). Padre Bresciani riporta in realtà il racconto di un suo interlocutore. Il narratore primario era stato un altro religioso, padre Boero, che fu per “parecchi anni maestro di lettere in Sardegna” (ed. 1861, p. 222). E queste dovrebbero essere le parole del Boero (p. 392) per come le riproduce Bresciani (miei i grassetti):

“Essendo io [Boero] in Sardegna, mi venne udito più volte di questa barbara usanza: ed una vecchia gentildonna dicea d’aver conosciuto nella sua giovinezza un’avola antica, la quale narrolle ch’essendo essa ne’ diciott’anni la prese una malattia acuta che la condusse agli estremi. Avea già avuto l’ultimo Sacramento e il prete le stava al capezzale; quand’ecco una fante entrarle in camera da un uscio che le stava dirimpetto, e vide a caso l’accabadore che in quell’anticamera attendea, se uopo vi fosse, di soffocarla, per cortesia d’accorciarle il patimento. E assicurava che a quella vista fu sì forte e sì subito il brivido e l’orrore che le corse nel sangue, che il male diè volta in una felicissima crisi di sudore, e fu guarita.”

Insomma, la povera ragazza, vissuta in pieno Settecento (facendo i conti al rovescio), ha visto la ‘morte’, o la sua presunta rappresentante, con i propri occhi, come si suol dire. Ma guarì per lo spavento. Quindi nessuna testimonianza diretta di un avvenuto soffocamento o altro.

Ho riletto da poco il romanzo Bel-Ami (1885) del francese Guy de Maupassant (1850-93), nel quale, come in tanti altri racconti suoi, meravigliosi, dominano di fatto le figure femminili. Uno dei personaggi, un “vecchio poeta”, Norbert de Varenne, al capitolo 6 descrive confidenzialmente al giovane protagonista (arrampicatore sociale di successo) questo ritratto della morte personificata (ed. it. Mursia, 1979):

“L’ho vista tingere di bianco i miei capelli neri, e con che lentezza sapiente e malvagia! Mi ha tolto la pelle compatta, i muscoli, i denti […] non lasciandomi altro che un’anima disperata e presto mi porterà via pure questa. Sì, mi ha sbriciolato, la sgualdrina […] E ora mi sento morire in tutto ciò che faccio. Ogni passo mi avvicina ad essa, [tutto] affretta il suo odioso lavorio. […] Vivere, insomma, è morire! […] Io, adesso, la vedo così da vicino che spesso ho voglia di stendere le braccia per respingerla. […] La vedo dovunque. Le bestiole schiacciate sulle strade, le foglie che cadono […] mi gridano: Eccola!”

“La vedo così da vicino che ho voglia di stendere le braccia per respingerla.” La giovinetta sarda dall’anima semplice, vissuta un secolo prima, avrà cercato di raccontare, nelle rimembranze dei suoi deliri febbricitanti, una scena del tutto analoga.

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