L’amaro esito del 26 maggio

1 Giugno 2019
Foto Roberto Pili

Foto Roberto Pili

[Alfonso Gianni]

La larga maggioranza dei commenti post 26 maggio si soffermano prevalentemente sul voto italiano. Non c’è dubbio che esso fornisce aspetti particolari che vanno valutati attentamente, tuttavia non si deve oscurare che quello di una settimana fa è stato un voto europeo che si è svolto in 28 paesi ed ha interessato un bacino elettorale di circa 400 milioni di persone. Ogni considerazione sul piano domestico non può non tenere conto del carattere sovrannazionale dell’evento. Anche se proprio per la sua ampiezza e articolazione una valutazione d’insieme non può che indulgere a qualche inevitabile semplificazione. Cosa a cui questo articolo non si sottrae.
Fatta eccezione per l’Italia, dove si è andati indietro, la partecipazione al voto è cresciuta, particolarmente in paesi chiave per gli equilibri politici nella Ue come in Germania. Ma in ogni caso l’affluenza alle urne azzurro-stellate è stata inferiore a quella delle precedenti elezioni nazionali per ogni paese. Se quindi il tema delle sorti della Ue sembra diventare più coinvolgente, il che è un bene, siamo sempre lontani da livelli di partecipazione auspicabili. In sostanza i dati sull’affluenza smentiscono tanto posizioni euroentusiaste, quanto quelle euroscettiche o sovraniste. Maggiore attenzione sì, ma non ancora consistente coinvolgimento.
L’esito del voto sottolinea alcune tendenze importanti, senza però portare nell’immediato modificazioni decisive negli equilibri politici. Il trionfo nazional populista non c’è stato. La cosiddetta internazionale nera si consolida, fa considerevoli passi in avanti in qualche paese, fra cui il nostro, ma non sfonda. Le Pen ottiene il primato in Francia, Nigel Farage nel Regno Unito – ma lì le elezioni sono avvenute in un clima e in un contesto del tutto particolari per le note vicende della Brexit, da meritare un discorso a parte – soprattutto la Lega in Italia raggiunge un inquietante 34,3% distaccando di più di dieci punti il secondo arrivato, cioè il Pd, si consolida la destra di governo in Ungheria e il Polonia, mentre l’Ibiza gate costringe L’Austria a elezioni anticipate a settembre, ma tutto ciò non comporta il rovesciamento dell’asse politico su cui poggerà il costituendo Parlamento europeo.
Aumenterà certamente la pressione delle destre ma la maggioranza necessaria per l’investitura del ruolo chiave del Presidente della Commissione, sembra essere la stessa che elesse Juncker, ossia quella formata da una intesa fra popolari, socialisti e liberali, anche se i rapporti di forza fra gli stessi non sono uguali a prima. E questo soprattutto per la dura sconfitta delle storiche socialdemocrazie. Il caso più eclatante è quello tedesco, dove la Spd vede drasticamente crollare i suoi voti, vanificando un disperato tentativo di distinguersi dalle vecchie politiche della Grosse Koalition, soprattutto in materia di lavoro. Un tentativo evidentemente troppo debole e tardivo.
Di questo, come del deteriorarsi del consenso ai partiti conservatori tradizionali, si avvantaggiano le formazioni di centro liberal, ma prevalentemente con sguardo a destra. Così come lo svilupparsi di un innovativo e promettente movimento di giovanissime e giovanissimi contro le mutazioni climatiche, ha risvegliato soprattutto nel Nord dell’Europa un’attenzione elettorale verso le formazioni Verdi, di cui però non ha beneficiato quella del nostro paese, se non in minima parte, a causa della inconsistenza del suo gruppo dirigente e delle modalità e composizione delle sue liste.
E arriviamo quindi al punto dolens: l’esito della sinistra radicale. Fatta eccezione per il Portogallo – che rimane significativa perché sfata il mantra per cui a sinistra chi sta o appoggia un governo è destinato sempre a regredire nelle elezioni successive – si è tratto di una dura sconfitta, nel caso italiano diciamo pure di una disfatta. Si è perso in Grecia, malgrado che Syriza fosse riuscita ad attutire sensibilmente i morsi del rigorismo soprattutto per i ceti più deboli. Sarebbe sciocco indorare la pillola. O trovare motivazioni ambientali, organizzative o occasionali. Purtroppo siamo di fronte a un dato generale che credo dimostri soprattutto una cosa. Il messaggio per cui è possibile fare esistere e vivere un terzo spazio, cioè un europeismo radicalmente critico di sinistra, fra le vestali di Maastricht e i sovranismi di ogni tipo non ha conquistare menti e cuori. Almeno non in misura soddisfacente. Questo non significa decretare l’erroneità dell’obiettivo, ma certamente accettare di metterlo “a tema”, proprio per trovare le specificazioni e le articolazioni necessarie per portarlo avanti. Non mi riferisco, a scanso di equivoci, a una questione di linguaggi, di capacità e potenza comunicativa. Ci sono stati – evidentissimi nel caso italiano de La Sinistra – limiti evidenti e gravi anche in quel campo. Ma non ci si può nascondere dietro ad essi, come se si dicesse “avevamo una buona politica, ma non l’abbiamo saputa spiegare”. Per la semplice ragione che una politica non è soltanto l’obiettivo finale e di fondo che si indica, ma l’insieme dei modi, dei percorsi, dei contenuti politici con cui arrivarci. E questi sono mancati e mancano o sono Ancora troppo esili.
Certamente poi vanno valutati i tempi brevi con cui La Sinistra è stata messa in piedi, dalla formulazione del suo programma alla composizione delle liste; certamente va tenuto conto che questi ritardi non sono derivati da distrazioni o sottovalutazioni dell’appuntamento, ma al contrario dai tentativi fatti per rendere la lista più inclusiva e più aperta a una pluralità di forze ed esperienze che avrebbero potuto – forse – aumentarne la credibilità e quindi le possibilità di superare il quorum. Obiettivo minimo, ma indispensabile. Ma le discussioni con De Magistris, necessarie quanto prolungate inutilmente nel tempo, si sono concluse con un nulla di fatto, peraltro non imprevedibile, e anche la ricerca di una non impensabile alleanza con i Verdi è stata stoppata dalla convinzione di autosufficienza di questi ultimi, ribadita anche post voto, malgrado i grami risultati di Europa verde, da parte di Monica Frassoni in un articolo di ieri su Il Manifesto.
Tutto ciò però non va messo in primo piano nella riflessione che ci aspetta, altrimenti si finisce per scambiare gli ostacoli secondari per quelli principali. Bisognerà invece riflettere sulla debolezza politica e irrelevanza elettorale della sinistra radicale italiana, inserendo il tema nel quadro europeo, a partire dalla assemblea già convocata per il 9 giugno. Non si tratta di sciogliere le righe dopo l’esito disastroso del voto, al contrario ridisegnarle, metterle in rapporto fra loro, affrontare nodi tematici e programmatici, farlo non solo all’interno dei micropartiti esistenti ma entrando in connessione con le intelligenze della sinistra diffusa e approfondendo la connessione e costruendola laddove è assente, con i movimenti sociali che costituiscono la resilienza alle politiche del governo pentaleghista, destinate, dopo il successo salviniano, ad incrudirsi ancora di più su tutti gli aspetti.

Articolo pubblicato su Eccoci rubrica settimanale di Jobsnews

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