Nakba, una catastrofe ancora presente

1 Giugno 2017
Gianfranca Fois
Il 15 maggio in Israele si festeggia la nascita, nel 1948, dello Stato di Israele, lo stesso giorno invece i Palestinesi commemorano la Nakba, la Catastrofe, quando furono attaccati dalle brigate israeliane e in  750.000 costretti a fuggire mentre 10.000 venivano uccisi.

Ma dal febbraio del 2010, secondo una legge emanata dalla Knesset, ai Palestinesi che vivono all’interno di Israele viene negata la possibilità di ricordare la Nakba mostrando lutto e dolore il 15 maggio. Vengono infatti comminate penalizzazioni finanziarie alle organizzazioni, alle scuole che ricordano la Catastrofe. In questo modo si vuole intimorire e mettere a tacere per cancellarne anche la memoria.
Nonostante ciò da quasi 20 anni i Palestinesi organizzano ogni anno la Marcia del ritorno con una partecipazione sempre crescente anche in presenza di misure sempre più repressive della polizia israeliana. Infatti qualsiasi manifestazione in ricordo della Nakba viene considerato come un atto  di terrore.
Per i Palestinesi è importante, direi vitale, la preparazione e la partecipazione alla Marcia sia perché ribadisce il diritto dei profughi al ritorno, secondo la risoluzione 194 dell’ONU sempre disattesa da Israele, sia per il suo potente significato simbolico, sia perché aiuta a salvaguardare la memoria da consegnare alle nuove generazioni ma anche perché dà la possibilità agli anziani di tornare ai propri villaggi portando le chiavi di ferro delle loro case che hanno dovuto abbandonare e che non esistono più.
Oltre ai profughi che sono stati costretti ad abbandonare i territori della Palestina assegnati nel 1948 per la creazione del nuovo stato di Israele, ci sono infatti i profughi interni e cioè quelle persone, e i loro discendenti, che non sono fuggite ma vivono ancora in Israele, spesso a pochi metri dalle loro vecchie case ora occupate da Israeliani o dai loro villaggi distrutti.
Infatti Nakba vuol dire anche distruzione di cittadine e villaggi palestinesi. Ne furono distrutti 524, con metodo scientifico per costringere gli abitanti a fuggire. Le truppe assediavano l’abitato da tre parti, la quarta, quella che  era orientata verso lo stato più vicino, veniva lasciata per la fuga. Dopo di che le case venivano distrutte e quanti eventualmente si trovavano all’interno uccisi.
Nei villaggi, alcuni dei quali vengono ancora distrutti più e più volte dopo ogni loro ricostruzione, abitati oggi dai Palestinesi mancano strutture importanti come presidi sanitari, la distribuzione dell’acqua, nei terreni attorno gli Israeliani espiantano gli alberi d’ulivo (simbolo del paesaggio nonché fondamentale base economica per i Palestinesi) e li sostituiscono con altri alberi.
Inoltre, per costringere gli abitanti ad abbandonarli, e questo vale anche per certi quartieri di città come Jaffa,   viene negata ai Palestinesi che vi abitano la possibilità di effettuare interventi di riparazione di case e palazzi. Di conseguenza diventano inabitabili e può così intervenire la speculazione edilizia.
Ma Nakba vuol dire anche cancellazione della memoria, infatti gli Israeliani hanno proceduto a rinominare località, paesi sostituendo i toponimi arabi con quelli israeliani, hanno ricostruito e rinominato luoghi di culto musulmani con nomi e culti ebraici secondo un processo di dearabizzazione del territorio e di pulizia etnica.
Appare evidente che la Nakba è una catastrofe che vive ancora. Vive ancora per i profughi sparsi in tutto il mondo e a cui Israele nega il diritto al ritorno, vive per i profughi interni che subiscono ogni sorta di violenza e di angherie: trasferimenti forzati, confisca forzata di case e territori, impedimenti alla libera circolazione, distruzione economica, incarcerazioni politiche e amministrative, costruzioni di insediamenti di coloni in territorio palestinese.
Secondo il giornalista Fulvio Scaglione, presente a Cagliari ad un incontro organizzato dall’Associazione Sardegna-Palestina, la Nakba è diventata attualmente una categoria storico-politica che si può usare per fenomeni diversi come ad esempio la situazione dei Cristiani in fuga da vari paesi (Iraq, Afghanistan, Siria ecc.) e ridottisi di circa due terzi. Si tratta  di minoranze di grande peso soprattutto nel campo della sanità e dell’istruzione, fondamentali per questi paesi anche perché per molti secoli hanno contribuito, con la loro terzietà fra Musulmani sciiti e sunniti, a dar vita a una società pluralista e tollerante. La loro fuga sta invece contribuendo a una forte radicalizzazione di queste società.
Si può parlare di Nakba anche all’interno degli odierni flussi migratori.
Sicuramente è un’ipotesi da prendere in considerazione anche se per ora la Nakba palestinese ha avuto modalità, proporzioni e durata ben diverse da questi altri fenomeni.

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