Qualcosa che abbiamo in comune

31 Dicembre 2011

Federico Zappino

Sull’anno che viene, il 2012, grava uno stigma non da poco, stando alle narrazioni delle antiche civiltà precolombiane. L’argomento, come si sa, è sempre reso intrattabile e liquidato con una risata da chiunque se ne approssimi, in modo volontario o meno. Credo, però, che quest’attrazione che esercita sulle coscienze di molti il topos della “fine del mondo”, stando alla mole di libri scritti sul tema (libri di massa s’intende, ma circa i quali sbaglia di grosso chi ne sottovaluta l’efficacia performativa sulle masse), disveli un legame diretto con una più ampia angoscia universale di distruzione totale.   Non è certo un preambolo divertito quello che pongo in cima a queste riflessioni di fine anno. Ma spero possa chiarire la posizione di chi non è ottimista ad ogni costo – laddove con ciò s’intenda incoscienza, indifferenza, incuria o, com’è spesso il caso, collusione. Nemmeno è però la posizione del pessimista nichilista. Tutt’altro. Nel momento stesso in cui scrivo, non solo troppe cose si frappongono tra me e un atteggiamento ottimista circa il futuro, ma proprio gli ottimisti sono coloro che mi preoccupano. Non credo di azzardare, d’altronde, nel dire che sia stato questo atteggiamento, spesso, a neutralizzare la portata e le conseguenze degli eventi – nefasti, distruttivi, corruttivi – giacché quando tutto va a rotoli, come in questo momento specifico, gli ottimisti tacciono, o sono ben lontani dal raccontare tutta la storia. La fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” si è accompagnata troppo spesso ad un timore di prendere parte, di esprimere un giudizio: e in questo senso, come diceva Hannah Arendt, quando ormai più nessuno è in grado di giudicare l’operato sia di chi governa, sia di chi è governato, ciò significa che più nessuno è libero. 
E dunque sembra quasi di assistere ad un certo fenomeno nella sfera pubblica, la tendenza cioè a ricondurre determinati fatti a macrocircostanze (economiche, globali) senza testa e senza volto, mentre determinati altri ci si limita a imputarli solo ed esclusivamente all’individuo che ne è strettamente responsabile (in senso giuridico).
Peccato però che tali operazioni, giuste e condivisibili in sé, vengano sempre eseguite in modo così strumentale e volontariamente cieco, da rendere manifesta, ai più accorti, la cattiva fede sottesa a ognuna di esse, ossia la progressiva “spoliticizzazione” di quei fatti. Per fare degli esempi, nel caso dell’ennesima giovane donna barbaramente uccisa, pochi giorni fa, dall’ex compagno, rea di averlo lasciato, la colpa viene attribuita solo ed esclusivamente a lui, all’assassino, in modo da rimuovere velocemente il misfatto dalle coscienze; nel caso, invece, della terribile situazione occupazionale di giovani e adulti, non esiste alcuna colpa individuale, ma è “semplicemente” l’esito di un “processo storico”, ricco di aporie economiche e culturali, nell’ambito del quale non è consentito far nomi. Con ciò non voglio affatto dire che questi due meccanismi di imputazione siano in sé errati, né tantomeno solidarizzare con l’assassino. È legalmente giusto infatti, nel caso della donna uccisa, fare il nome dell’aguzzino e portarlo in tribunale, quel luogo in cui si è chiamati a rispondere individualmente, sotto la propria responsabilità giuridica e morale, dei propri atti e in cui perde qualsiasi pregnanza ogni riferimento ideologico, edipico, ecc.  Questo però non può e non deve bastare a eludere il fatto che, in realtà, non si tratta di un mero caso in cui un soggetto A uccide un soggetto B, bensì di un fin troppo noto caso in cui un uomo esercita violenza, al punto di ucciderla, su una donna. Un fatto, cioè, tutt’altro che originale, una vecchia storia.
Un fatto che rimbalza su tutti i media più rispettabili – e non è barbino pensare solo perché si è versato del sangue – nell’ambito di una cultura, la nostra, che si nutre di violenza, e particolarmente (ma non esclusivamente) di violenza etica e politica degli uomini contro le donne, a tutti i livelli, che assume forme assai varie, anche in contesti di esplicita affermazione femminile – penso, ad es., alla recente e continua rimessa in discussione della legge 194 e all’aumento impressionante di medici obiettori: come se l’unico modo per mettere in discussione la necessarietà del diritto di aborto per le donne, semmai, non passasse proprio attraverso la progressiva (e altamente possibile, benché bandita) eliminazione della violenza esercitata contro di esse, da quella morale a quella sempreverde e sempre difficile da individuare, sessuale (e anche in quel caso, a scanso di equivoci, nessuno sarebbe legittimato ad abolire arbitrariamente un diritto di scelta sul proprio corpo, acquisito dopo decenni di meritorie lotte politiche).
Messaggi, questi, che avremmo già dovuto imparare a decodificare ogniqualvolta ci fossimo imbattuti in essi, a partire dai programmi politici, passando per quelli televisivi, fino ad approdare a quelli matrimoniali: poiché continua ad essere attuale e lucidissimo il motto femminista “il personale è politico”. 
Allo stesso modo, nel caso dell’emergenza occupazionale, è corretto e misurato non smettere di analizzare i complessi meccanismi, non solo economici, che vi stanno alla base, come si dovrebbe fare d’altronde per qualsiasi altro micro o macro fatto sociale, purché ciò non eluda il fatto che in determinati momenti storici facilmente individuabili, determinati uomini ai quali era stato conferito il potere di mettere in atto politiche per la collettività (ossia, il potere di governare) hanno operato determinate scelte, le cui conseguenze ci piombano ora sulla testa come macigni – e temo siano ancora troppo pochi coloro in grado di rendersene conto.  Fanno dunque bene, io penso, quelle tante donne (e quegli uomini) che in queste ore stanno gridando al “femmicidio”: libere parole pronunciate in pubblico al fine di esprimere un giudizio circa il fatto che non si può sussumere sotto la categoria giuridica di “omicidio” un fenomeno tutt’altro che privato, ispirato a ben altre logiche, per il quale urgono misure mirate e un minimo senso di responsabilità collettiva (stesse motivazioni per le quali urge, ad es., l’aggravante specifica per “omofobia”).
Così come, ugualmente, fanno bene le lavoratrici e i lavoratori della conoscenza del Quinto Stato a fare i nomi di chi ha deciso, di chi ha agevolato, di chi ha posto in essere le condizioni per il genocidio delle nuove generazioni, imputando pubblicamente e collettivamente responsabilità individuali. 
Sentirsi parte attiva di un contesto culturale che dispiega i suoi effetti, da un lato, giudicare pubblicamente, dall’altro: in entrambi i casi sto parlando di “responsabilità collettiva”, ossia qualcosa di cui non saremo chiamati a rispondere in quel luogo giustamente sterile che è il tribunale, ma di qualcosa che abbiamo in comune poiché le nostre vite, da sempre, avvengono le une accanto alle altre; qualcosa che potrebbe (e può, come nei casi che ho descritto) farci sentire parte di un luogo invece denso di significati e di significanti, in cui trovano cittadinanza sia i riferimenti ideologici che i complessi di Edipo, sia le ragioni che le passioni, condensate in un equilibrio che deve essere sempre riconcertato, che è la politica, il potere che abbiamo – se lo vogliamo – di incidere su qualsivoglia macroprocesso acefalo possibile; gli effetti della nostra non-volontà, d’altronde, dovrebbero già essere ben visibili a chiunque.
E queste parole, tutt’altro che nuove, le dico proprio sapendo che c’è chi, da un lato, si impegna a definire e a rendere la politica “merda e sangue” e chi, dall’altro, getta le armi, contribuendo così a “giurisdizionalizzarla”, a renderla cioè, al pari di un’aula di tribunale, un luogo a-relazionale di decisioni asettiche.  Se c’è un luogo in cui è possibile contrastare le angosce apocalittiche di distruzione totale, io penso, quello è la politica. Ben distante dalle posizioni sopracitate, Arendt (e così chiudo con la pensatrice con la quale ho iniziato) la definiva come qualcosa «che nasce tra gli uomini […] che nasce nell’infra, e si afferma come relazione», uno spazio cioè di possibilità, nell’ambito del quale avremmo diritti e doveri di intervento e di cura, poiché «è solo in quell’infra della politica che esiste la libertà».

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