Scusate il disturbo

16 Settembre 2012
Gianni Loy
Il recente dibattito sul “sovranismo” mi ha ricordato l’ormai lunga storia della “questione sarda” che, nell’arco di poco più di mezzo secolo, ha coniato nomi ed aggettivi che, ad uno sguardo retrospettivo, sono stati logorati da un uso spesso improprio, quando non strumentale e, ahimè, il più delle volte piegato ad interessi ed obbiettivi che, con la “sovranità” della Sardegna non avevano (e non hanno) niente a che fare. Si è cominciato con l’autonomia, ricordo, già a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, le elaborazioni di Umberto Allegretti ma, prima ancora, la “specialità”. Bella parola che, nel corso del tempo, è stata addirittura il pretesto per impedire che moderne riforme potessero essere applicate in Sardegna. Basti un esempio: dopo la riforma che ha portato alla privatizzazione del pubblico impiego, in Sardegna, per lunghi anni, in nome e grazie alla specialità, si è continuato ad applicare nientemeno che il celebre “Testo unico degli impiegati dello Stato”, che lo Stato aveva già gettato alle ortiche e quasi dimenticato.
Anche l’autonomia non ha avuto miglior sorte. Quando tutti son diventati autonomisti, o almeno hanno proclamato di esserlo, l’espressione ha finito per perdere qualunque carattere qualificativo, è diventata semplicemente inutile. Senza contare che, dopo essere stato un paladino dell’autogoverno, delle decisioni dal basso, del decentramento e di tante belle cose del genere, quando in nome dell’autonomia e dell’autogoverno, amministrazioni locali hanno fatto scempio di beni culturali e paesaggistici, di usi civici e di tante altri preziosi beni comuni del nostro popolo (e non solo del nostro), ho desiderato, lo confesso, un sano centralismo in grado di meglio tutelare i beni che credo debbano essere tutelati.
Poi è venuta la stagione di “Nazione sarda”, con Lilliu, Elisa Spanu  Nivola ed altri, in su celu sianta, che ha incominciato a declinare  il termine nazione, nazionalitario, distinguendolo dalla semplificazione che il termine indipendenza, soprattutto allora, poteva indicare.  Ma ricordo anche che a quei tempi, se ti trovavano addosso una copia di “Su populu sardu”, regolarmente acquistata  in edicola, il fatto veniva classificato dalla stampa come “ritrovamento di materiale sovversivo”.
Diciamo pure che la nostra storia di autonomisti, o di quello che volete, non è gloriosa. Quando, già negli anni ‘70, si è presentata  la questione della lingua, i nostri onorevoli, che potevano semplicemente utilizzarla se e quando avessero voluto, si posero addirittura il problema di ottenere una sorta di permesso da Roma per potersi esprimere in sardo nelle istituzioni. Cosa da non credere. Così che utilizzarla in pubblico, nelle assemblee elettive, sembrava un atto di provocazione che spesso, grazie ad una informazione superficiale, è stato ascritto alla categoria del folklore. Del resto, anche i “sovversivi” più accesi  avevano un approccio quantomeno impacciato con la lingua. Ho assistito a riunioni di intellettuali assai in auge, impegnati nel redigere un programma avanzato di riconoscimento linguistico, che si esprimevano rigidamente nella lingua di Dante.  Anche il discorso sulla pratica dell’obiettivo è sempre risultato contradditorio e lacunoso. L’autonomia in sostanza, quando non una semplice clausola di stile, o persino l’indipendenza, sembravano più benefici concessi che non conquiste. Nel frattempo, anche molti  intellettuali che rivendicavano il diritto di parlare la lingua sarda, la negavano, nel privato, ai propri figli.
Il termine in cui più mi sono riconosciuto, e mi riconosco, in fondo, è quello di “identità”, forse perché è qualcosa che non devo dimostrare, perché è semplice ontologia. Mentre avverti che qualcosa non quadra nel tuo orizzonte, ti specchi ad uno specchio e scopri di essere diverso da ciò che credevi di essere, non sei un anatroccolo ma sei un cigno, oppure non sei un cigno ma sei un anatroccolo, è la stessa cosa, cioè sei, semplicemente, diverso, ma senza cercare balle genetiche,  dna o forma del cranio. Sei sardo e basta come il tuo amico e fratello, il tuo compagno di lavoro, possono essere piemontesi piuttosto che senegalesi. E questo giustifica un diverso comportamento, a cominciare dal dovere, etico, di trasmettere queste peculiarità, a cominciare dalla lingua che, pur non indispensabile, come taluni giustamente affermano, è pur sempre un formidabile strumento di trasmissione culturale di cui è veramente difficile fare a meno in una battaglia per la sovranità. Adesso si dice così?
Queste riflessioni le ho approfondite soprattutto all’epoca di Democrazia proletaria sarda, grazie allo stimolo proveniente da una delle sue componenti, Avanguardia operaia, in un brodo di cultura che, però, era costituito da un impegno sociale e politico che, per semplificare, potremmo definire di sinistra, dalla parte degli sfruttati piuttosto che degli sfruttatori. Dove l’obiettivo era l’internazionalismo proletario, altro che la frammentazione e nuovi nazionalismi che, per il principio dell’identità, venivano automaticamente ascritti alla destra ed alla reazione più bieca. Così si son comportate le componenti prevalenti del  PCI di allora, sicuramente corresponsabili di un certo genocidio culturale che la Sardegna ha subito per lunghi anni. Personalmente sono arrivato alla banale conclusione della indipendenza, della non interdipendenza delle categorie. Nessuna delle due prevale sull’altra.  Altro è sperare ed impegnarsi per una “sovranità” sempre più accentuata (non si dimentichi che anche la sovranità, come l’autonomia, può indicare contenuti di diversa gradazione sino a poter perdere qualunque capacità selettiva) altro è continuare, coerentemente, a militare a sinistra. Sono come due parallele che non si incontrano mai.
Traducendo tutto questo nel dibattito appena aperto su queste colonne, mi pare che permanga un grave rischio di confusione. Se Michele Piras ed il Sel riconoscono a Giorgio Oppi, o ad altri, un’autentica vocazione  “sovranista”, concordino pure con essi le regole di governo di una Sardegna più sovrana o anche indipendente. Ma la comune vocazione “sovranista” non può giustificare, come sembra, la possibilità di un accordo programmatico di governo,  perché per tale accordo bisogna concordare sulle scelte in materia economica e sociale: siamo liberisti o, almeno, socialdemocratici? Concordiamo sui diritti civili?
L’unità delle forze sovraniste è altro, e diverso, dal programma di governo. Una dichiarazione di indipendenza la potrei votare anche con Cappellacci, ma consapevole che dal giorno dopo saremmo avversari  per la diversa concezione della società, dei diritti umani,  delle scelte di politica economica. E poi mi piacerebbe vedere tutti i “sovranisti” incominciare a praticare l’obiettivo. Cosa impedirebbe ai sindaci di Sel di incominciare  ad esprimersi pubblicamente ed ufficialmente in sardo, ad esempio, come avviene in tutte le autonomie d’Europa? Di far comunicare, in sardo, le proprie istituzioni?
Mentre voi, giustamente, cercate di risolvere i problemi generali della Regione, in questo momento, personalmente, combatto perché trovi attuazione una legge dello Stato italiano che mi da il diritto di far impartire l’insegnamento della scuola materna a mia figlia in lingua sarda. E’ incredibile, ma nonostante il sovranismo imperante, sembra quasi impossibile conseguire un così piccolo risultato. Eppure non occorre neppure metterlo nel programma delle future alleanze, basta farlo, e con pochi spiccioli.

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