Si può imparare dalla pandemia?

16 Gennaio 2021

[Antonio Muscas]

Ho contratto il virus la sera del 30 dicembre, a casa di un amico. Ho manifestato i primi sintomi il 3 gennaio, con emicrania e qualche lineetta di febbre.

All’inizio ho pensato ad un colpo di freddo, anche se ho iniziato a prendere qualche precauzione nell’ipotesi si trattasse del virus. La doccia fredda è arrivata la mattina del 4 quando l’amico mi ha chiamato per avvisarmi che era stato a contatto con una persona risultata positiva. Anche lui come me era stato male e perciò i miei sospetti si sono trasformati in dubbio pesante, diventato poi certezza con l’esito del tampone. Fortunatamente né io né lui abbiamo avuto conseguenze serie, giusto un po’ di febbre e, nel mio caso, dolori muscolari per qualche giorno. Ma ciò che qui vorrei trattare è quanto di prima persona ho potuto constatare sul funzionamento del nostro sistema sanitario.

Il sistema di tracciamento

Appena ricevuta la telefonata dall’amico mi sono attivato per effettuare il tampone e l’appuntamento mi è stato fissato per il giorno successivo, ma tra manifestazione dei sintomi e ricezione dei risultati sono trascorsi 4 giorni. Tanti. Solo per puro caso non ho contagiato a mia volta amici e familiari. Ho fatto il conto che tra contatti diretti e indiretti avrei potuto coinvolgere più di 50 persone. Ma per altre persone le cose non sono andate così bene. Io, tra l’altro, ho avuto la fortuna di essere stato avvisato per tempo e di aver potuto effettuare il tampone quasi subito. Ma, mentre nel mio caso, tra contagio ed esito del tampone, sono trascorsi 7 giorni, altre persone hanno impiegato tempi persino doppi e nel frattempo hanno continuato a condurre una vita sociale regolare. Qualcosa perciò non ha funzionato nella catena di controllo generale. I contatti diretti delle persone positive dovrebbero essere rintracciati immediatamente, messi in quarantena preventiva, sottoposti a tampone e, a loro volta, dovrebbero essere individuati e monitorati i contatti di questi ultimi. In questo modo si eviterebbero la maggior parte dei contagi. Ma per far questo servono risorse umane, economiche e tecnologiche. Bisogna cioè investire importanti capitali umani ed economici in tal senso. Se le cose oggi funzionano così non è certo colpa di chi già è impegnato e spesso sopraffatto dalla mole di lavoro. Inoltre, a funzionare male non è esclusivamente il sistema sanitario, è tutto il sistema a non funzionare, perché a distanza di quasi un anno dall’esplosione della pandemia ancora non è stato organizzato per farvi fronte adeguatamente.

Il caso Svizzera

Sul numero 1391 di Internazionale dell’8 gennaio 2021, in cui si riporta un articolo della Neue Zürcher Zeitung a firma di Nicole Rütti, si raccontano di alcuni casi in Svizzera di come si sta riorganizzando il mondo del lavoro in conseguenza della pandemia. Si cita la Jdmt, un’azienda che si occupa di rintracciare chi ha avuto contatti con le persone contagiate. Questa ha presentato una proposta ai sindacati e ai dipendenti della Swiss International Airlines per l’assunzione a tempo determinato di dipendenti della compagnia aerea attualmente sottoposti a turni ridotti a causa della riduzione dei voli. In 26 si sono trasferiti alla Jmdt ma potranno riprendere il lavoro precedente non appena le condizioni dovessero cambiare. Questa soluzione ha il doppio vantaggio di garantire piena occupazione ai lavoratori e di rinforzare il settore dei tracciamenti, indispensabile in questa precisa fase storica. Non è questo però l’unico esempio. In altri settori colpiti dalla crisi il personale si è potuto trasferire in altre aree oggi scoperte. Come è capitato a degli chef andati a lavorare nelle macellerie dei supermercati o a degli agenti di viaggio trasferiti presso aziende del commercio in rete o compagnie di assicurazione per l’assistenza ai clienti.

Il caso Italia

In Italia niente impedirebbe di fare altrettanto. Sono tanti infatti i lavoratori qualificati, precarizzati, costretti a casa, o comunque a lavorare a tempo ridotto; lavoratori reimpiegabili negli stessi ambiti o in ambiti compatibili. Servirebbero a rinforzare il sistema di tracciamento e dare un’indispensabile mano d’aiuto nella sanità, costantemente in difficoltà. E, poiché sono previste forme di sussidio per chi ha ridotto il fatturato della propria attività o impresa, perché non offrire a queste stesse figure professionali opportunità di lavorare dove oggi è necessario? Perché non offrire ai percettori di sussidi e reddito di cittadinanza opportunità di reinserimento nel mondo del lavoro? Ritornando all’ambito della ristorazione, sarebbe praticabile, per esempio, utilizzare le cucine dei ristoranti per fornire pasti alle persone costrette a casa perché in isolamento o in quarantena, ai malati e agli indigenti, così da tenere in vita queste attività, promuovere la filiera corta e il cibo di qualità e nel contempo sgravare le tante associazioni di volontariato impegnate nella raccolta e distribuzione di cibo e spesso costrette, per ragioni contingenti, a far largo uso di cibo dozzinale con annesso corredo di plastica e imballaggi? Perché non mettere in piedi un sistema di assistenza telefonica ove si dia la possibilità alle persone, chiamando un numero verde locale, di ricevere consulenza e aiuto per tutte le necessità quotidiane? Oppure perché non creare gruppi di lavoro composti da varie figure professionali, tecnici, medici, sociologi, ecc., che girino di casa in casa a offrire assistenza e aiuto, psicologico, materiale, tecnico, a chiunque ne abbia bisogno? Chi è costretto in casa perché in isolamento, in quarantena o qualsivoglia altra ragione, può avere necessità non esclusivamente di cibo o assistenza sanitaria. Può avere una bolletta da pagare, un guasto da riparare, una rete da connettere o, più banalmente la necessità di scambiare qualche parola. Perché perciò non attivare quell’enorme bacino di risorse umane, di potenzialità inespresse, oggi parcheggiate o scarsamente o male utilizzate, per accoglierle o riaccoglierle funzionalmente nella società? La pandemia è ancora lungi dal terminare e ci vorranno presumibilmente diversi anni perché si ritrovi un nuovo equilibrio. Ci siamo ancora dentro con tutte e due le scarpe. Le situazioni di difficoltà solitamente sono l’occasione per imparare qualcosa e migliorarsi.

Il governo italiano appare più intento a contenere il virus che non a debellarlo. In questi lunghi mesi ha messo in cantiere tante iniziative per fornire sussidi ai lavoratori e alle imprese in difficoltà, ma sembra mancare totalmente un piano, un progetto diciamo, che consenta di passare dalla banale sussistenza al rilancio del lavoro, inteso come riattivazione dei meccanismi essenziali di funzionamento della società. A seguire, stesso discorso possiamo fare per i governi regionali e locali, ove il governo sardo, prova ne sia il nuovo piano casa, è parso tutto intento a sfruttare l’occasione per aumentare i volumi di cemento in giro per l’isola.

La pandemia come guida

Non abbiamo bisogno di inventarci niente di nuovo, basta avere la capacità di guardarsi attorno e copiare gli esempi più virtuosi adattandoli al nostro contesto e alle nostre necessità. Certo, con la crisi del governo Conte in corso, parlare di queste cose sembra eufemistico. Ma le contingenze non devono impedire di guardare avanti, ai progetti importanti; soprattutto quando le crisi sono provocate da uomini piccoli, incapaci di sollevare lo sguardo. Ad oggi tutto ci fa pensare che stiamo perdendo un’occasione. Ma la coscienza ci dice di spingere per accelerare la transizione verso un sistema diverso, equo, meno assistenzialista e più inclusivo, con una visione più lungimirante e rivolta al futuro, alla qualità della vita di tutti e alla salvaguardia della nostra specie e del nostro pianeta.

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