Sin qui tutto bene?

16 Settembre 2016
Mauro Tuzzolino
Mauro Tuzzolino

Sin qui tutto bene” recitava la voce fuori campo del film “L’odio” di M. Kassovitz. Un uomo che precipita si ostina a dire “sin qui tutto bene”, ignorando che la cosa importante non è la caduta ma l’arrivo. Sin qui tutto bene sembra essere diventato il refrain delle nostre vite precarie.

Rassegnati, impotenti, a volte cinici, spesso indifferenti, abbiamo tutti (o quasi) la sensazione che la nostra vicenda umana e collettiva stia precipitando verso un inevitabile disastro. La crisi è divenuta ormai una condizione permanente, un paradigma esistenziale; e da economico – finanziaria ha esteso il proprio campo di influenza, divenendo crisi tout cour, crisi ecologica, crisi internazionale e geopolitica, crisi sociale, crisi umana.

E come un puzzle che si autocompone tutti i pezzi delle nostre cronache quotidiane sembrano essersi conformati in una fittissima rete di cause, concause ed effetti, che sono essi stessi crisi e ne alimentano vieppiù la portata. Migrazioni, instabilità del medioriente e del Mediterraneo in generale, disastri ecologici, crisi idrica, fondamentalismi di andata e di ritorno, la povertà che si allarga a macchia d’olio anche nelle aree affluenti del pianeta, … sembra insomma che si sia entrati a pieno titolo nell’era dell’instabilità e della paura.

E questa consapevolezza si sta fortemente radicando nelle nostre percezioni, individuali e collettive. Abbassando anche le nostre soglie di indignazione e di capacità di reazione. Il Mediterraneo sempre più precipita dentro una dimensione di guerra permanente. Il nostro anelito a recuperare uno spazio di pace, scambio, cultura e commercio, valorizzando il contenuto intrinseco di questo nostro mare, viene frustrato dall’evidenza di un’impotenza. 

Sin qui tutto bene!

E nel mentre cresce l’effetto dell’immanenza della guerra e dell’instabilità, al decrescere della nostra capacità di pubblica opinione di vedere, indignarci e scuotere le classi dirigenti.

In tutto questo le nostre società si avviluppano in un circolo vizioso di economie sempre più virtuali e marginalizzazione del lavoro, sia dal punto di vista qualitativo, perdita di diritti, precarietà, sia da quello quantitativo, con una massa di “riservisti” sempre più ampia, funzionale all’abbassamento delle soglie di accettabilità. Insomma cresce il ritornello “un lavoro purché sia!” Mentre masse di migranti sfuggono a guerre, carestie e povertà, ingigantendo il numero dei diseredati, accentuando l’acuirsi dei conflitti verso il basso, la drammatica guerra dei poveri: chi sta in basso si sente ancora più minacciato da donne e uomini la cui soglia di disponibilità al lavoro servile è molto più bassa per evidenti ragioni di sopravvivenza.

Sin qui tutto bene!

E dinanzi ai nostri occhi subiamo passivi il riapparire di forme di schiavitù, noi che ci siamo formati sulle battaglie di Martin Luther King e, più recentemente, su quelle di Nelson Mandela. Che cosa è, se non schiavitù, un ragazzo che trascorre dieci ore al giorno presso un inquinatissimo incrocio per vendere fazzolettini o lavare vetri? Che cosa sono, se non schiavi, coloro che, opportunamente selezionati da un caporale, trascorrono intere giornate a raccogliere pomodori per pochi euro? E il fatto che le odierne forme di apartheid siano più subdole non ci può assolvere dalle nostre pigre acquiescenze.

Sin qui tutto bene!

E intanto il parametro del saccheggio sembra farla da padrone: saccheggio dei beni pubblici, saccheggio della biosfera, saccheggio del lavoro, dei giovani cui viene sottratto il diritto al futuro.

C’è una responsabilità di tempo, insomma. C’è una sfida. Forse la solita sfida. La sfida per la proprietà e l’uso delle risorse. Risorse tangibili, quelle tradizionali come le materie prime, le fonti energetiche, l’acqua, il territorio, i trasporti e risorse tangibili del nostro secolo, le reti, le infrastrutture digitali e tecnologiche; risorse intangibili, come l’informazione, la tecnica, la conoscenza, la finanza. Una sfida che assume semmai i tratti giganteschi della dimensione globale sulla quale si dispiega. Terreno sul quale le soggettività di sinistra e in generale le tradizionali organizzazioni di difesa e salvaguardia degli interessi popolari registrano un grave e colpevole ritardo. Ritardo interpretativo; ritardo organizzativo: deboli infrastrutture di relazioni internazionali, poco sforzo nella ricerca di una frontiera comune di esercizio del conflitto. Continua ad esserci una sopravvalutazione dello Stato nazione come “campo di battaglia”, probabilmente anche per una fisiologica tendenza alla conservazione di strutture innestate per consuetudine, forma e tradizione nel quadro delle istituzioni nazionali.

E non è soltanto una questione di dimensione; la questione è che ormai la sfida è globale, non soltanto nel senso dell’estensione geografica, ma anche e soprattutto nel senso che tale sfida riguarda la nuda vita . E come ci ha mostrato anche tanta letteratura fantascientifica, tale dimensione infinitamente vasta divarica il terreno dello scontro: verso il basso e verso l’alto. Globale significa locale, nel senso che proprio per tale uniformità nell’esercizio del potere tendente a ridurre diritti, a comprimere spazi di vita e di esistenza, a conformare la persona al prodotto di consumo, ogni azione di contrasto, ogni motivo di conflitto si genera e si esercita necessariamente su una dimensione locale, e tuttavia necessita una capacità connetiva di offrire voce e rappresentanza su una dimensione che non può non essere internazionale.

Non a caso registriamo, come ci ricorda Aldo Bonomi, un rovesciamento conformistico nella logica del racconto: invece di raccontare ciò che sta in basso che chiede inclusione, si racconta ciò che dall’alto impone austerità e rigore. E sui miti sapientemente veicolati del potere globale si forma il senso comune. E si abbassano persino le soglie della nostra indignazione.

E allora la questione è quali siano le soggettività capaci di costruire anche solo una narrativa del dubbio; così come occorrerebbe chiarire come si esercita la dimensione del governo. Se ci si limita a ben amministrare, mostrando la propria incapacità di entrare nel merito delle grandi questioni dirimenti, allora la prospettiva governista rappresenta soltanto la meta di persone e gruppi.

In tal senso bisogna uscire da una dimensione di organizzazione sostanzialmente di opinione e cominciare a tessere la trama della composizione e della rappresentazione di interessi reali. Vero è che la spettacolarizzazione della politica ha sempre più contaminato la scena pubblica di emozioni e sentimenti. Ma parafrasando il compagno Pietro Ingrao della sua ultima intervista dico che emozionarsi non basta.

La Sinistra dovrebbe ricordare il proprio futuro, quando si configurava come capacità di fare comunità, legare interessi, produrre solidarietà dal basso, in una dimensione di territorio e di terreno. Prima che il modello economico fordista da un lato e il pensiero leninista dall’altro canalizzassero la Sinistra nel binomio grande fabbrica come luogo del conflitto e Stato come dimensione della mediazione di quel conflitto o come luogo mitico della presa del Palazzo d’Inverno.

C’è una società “moltitudinaria”, scomposta e disgregata. Il dissenso si esprime al di fuori di una coscienza collettiva, perdendo la gran parte della sua potenzialità progressiva nell’esercizio del conflitto. Questo assume forme anche virulente assimilabili a “infezioni” nel corpo della società del finanz capitalismo; hanno spesso una dimensione circoscritta sia dal punto di vista della perimetrazione territoriale sia da quello del tematismo: basti pensare ai tanti comitati di difesa del territorio dinanzi ai frequenti tentativi di pianificare operazioni ad alto contenuto speculativo. Cosi come la rabbia del lavoro precario e del non lavoro difficilmente assume le caratteristiche di un conflitto organizzato e indirizzato: l’individuo solo nella sua dimensione di precarietà e di paura, debole, spesso assolutamente trascurabile nella sua forza di negoziazione, è naturalmente portato verso un comportamento deviante, diffidente nei confronti di qualsiasi forma organizzata, scarica la propria frustrazione esistenziale verso se stesso e verso la società nel suo senso più ampio. Come spiegare la progressiva disaffezione del cittadino italiano nei confronti della normale dinamica democratica costituita dalle elezioni? Come spiegare la violenza verbale espressa sovente nei social ad ogni evento di particolare rilievo? E’ certo, tuttavia, che il sistema di potere mostra tutte le proprie crepe, le proprie contraddizioni e una certa intrinseca debolezza. Persino nell’acuirsi degli episodi di terrorismo nel cuore dell’Europa c’è da cogliere un elemento di irriducibile conflitto non a caso localizzato nel cuore del disagio sociale e dell’esclusione.

La moltitudine spesso riesce a farsi comunità: Comunità difensiva e del rancore: la comunità della paura verso il concretizzarsi dei flussi globali nel proprio intorno: rancore che si produce verso l’altro diverso da sé, l’immigrato (flussi) in primo luogo e che traduce in un neo tribalismo di territorio il proprio sentire; Comunità di cura: non soltanto l’incredibile e ricco mondo del privato sociale, del terzo settore e del volontariato laico e cattolico, ma anche tutte quelle professioni che si configurano come cura degli altri, lavori di servizio alla comunità, che maturano una forte etica del lavoro e del vivere associato; Comunità operosa: i vitalismi del margine, insieme alle eccellenze legate alle funzioni di punta della città dei servizi. La cosiddetta classe creativa di cui ci ha parlato R. Floridia che si annida tra le funzioni di servizio dello spazio urbano, e l’artigianìa di qualità; le nuove web community, polivalenti, difformi, entro cui si annidano insieme le stelle e le ghiande.

La sfida è proprio quella di mettere insieme le comunità di cura, le comunità operose e le web community, facendone Società. E lo si fa agendo Politica, cioè agendo la capacità di traguardare un progetto, attraverso la mediazione e l’accompagnamento dal basso delle singole soggettività. Una società che frequentemente appare come fiume carsico. Una società che si insedia con prepotenza nelle nostre quotidianità, una società di cui spesso siamo parte attiva. Festival culturali di comunità, sistemi di moneta complementare, un cooperativismo sociale colto, rigoroso e consapevole, una forte vivacità creativa, crescenti esperienze di sharing economy ed economia circolare, costituiscono la prova più riuscita del meccanismo dell’autogoverno e della partecipazione decidente come fattore competitivo di un sistema organizzato.

Certo. Una Sinistra curiosa, radicale, coraggiosa, solidale; aggiungo, e non è sfida semplice, una Sinistra capace di esercitare assistenza tecnica verso quei vitalismi, capace di operare una configurazione organizzata di quello straordinario multiverso, esercitando la democrazia integrale come pratica quotidiana.

Mi piacerebbe che su questi e altri temi si aprisse un confronto, un dibattito, uno scontro. Il terreno della Politica è quello della retorica, il dominio della Retorica diceva qualcuno. E coltivare un dialogo sui temi cardine del nostro vivere presente mi pare la maniera migliore per venirne a capo, per attivare un linguaggio di decodifica e di costruzione di un senso comune. Una cultura profonda si è radicata nel nostro Paese nella dinamica del tempo storico; una grande capacità di navigare e orientare insieme la vicenda umana. Un’eredità culturale che abbiamo il dovere di preservare e arricchire. Cosa importa un nome? Cosa importano le questioni futili su alleantismo e rivendicazione di purismo ideologico? Serve guardare in faccia il nostro tempo, superare la paura di avere paura. Una “strategia dello sguardo”, direbbe il filosofo S. Tagliagambe, che consenta nella consapevolezza dei limiti, di prefigurare, se non proprio un orizzonte, almeno una percezione condivisa del nostro destino.

Riprendo le parole del giornalista e scrittore Davide Camarrone: “questo è quel che possiamo fare, e lo stiamo facendo perché dobbiamo farlo, e vogliamo farlo, e perché ogni generazione deve saper rispondere al compito che la Storia gli impone.

In questa prospettiva ci si apre la lunga marcia alla ricerca del futuro, declinata non come ricerca della felicità ma come riscoperta della felicità della ricerca. Con le porte sempre aperte, al dialogo, all’ascolto, alla riflessione, alla comprensione; perché la Sinistra, ancor prima di tutto il resto, è Bene Comune.

2 Commenti a “Sin qui tutto bene?”

  1. Giovanni Mancino scrive:

    Bravo Mauro. Analisi ” sudata ” e appassionata che trasmette ” critica” e nuovi possibili orizzonti verso i quali rimetterci in marcia. Sin qui ” tutto male “, ma le tue riflessioni sono un possibile punto di partenza per cambiare lo stato di cose. Coraggio , sempre cosi, noi che non possiamo stare a guardare.

  2. DIBATTITO. Come uscire dal capitalismo in crisi. La Sinistra ha (o potrà avere) ancora un ruolo? Ma, quale Sinistra? Un intervento (una chiamata al dibattito) di Mauro Tuzzolino. | Aladin Pensiero scrive:

    […] Sin qui tutto bene? …Serve guardare in faccia il nostro tempo, superare la paura di avere paura. Una “strategia dello sguardo”, direbbe il filosofo S. Tagliagambe, che consenta nella consapevolezza dei limiti, di prefigurare, se non proprio un orizzonte, almeno una percezione condivisa del nostro destino (Mauro Tuzzolino su il manifesto sardo). […]

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI