Tialla arrubia. La mensa dei poveri stellata

16 Aprile 2019
[Piero Careddu]

Atto I “Se vuoi prendere la Stella devi avere il foie-gras in menu”. Questa frase me la disse uno Chef, peraltro molto bravo, che subito dopo iniziò una fulgida carriera costellata di successi e fama internazionale. Vorrei precisare che l’oggetto delle riflessioni di oggi non è la macabra tradizione del foie-gras: credo siate tutti a conoscenza dei brutali maltrattamenti ai quali vengono sottoposte oche ed anatre, per produrre uno stupido e costoso status symbol. Oche ingozzate con imbuti metallici, che provocano dolorose ulcere alla lingua e alla gola, per provocare loro una steatosi epatica che poi viene venduta per molti euro al chilo. E’ solo uno dei tanti controsensi nei quali si autocelebra la moderna enogastronomia: produrre e vendere un cibo malato alla fonte. Nutrirsi è fonte di vita e la cucina è l’elaborazione del nutrimento in un’ottica di piacere edonistico che, di conseguenza, diventa atto culturale. Prima domanda banale: come possono andare d’accordo cultura e brutalità, vita e violenza gratuita, arte culinaria e becero cinismo?

Atto II Diceva un certo Josè Saramago, un po’ di anni fa: “…In Europa si sta consolidando un potere che riduce i cittadini a consumatori. In una cornice mondiale che, tra l’indifferenza generale, sta distruggendo sistematicamente volontà, ideologie, coscienze”. E’ inutile nascondersi dietro un dito: la grande cucina non è alla portata economica di tutti e, di conseguenza, qualcosa della quale non possono godere tutti non è cultura né tantomeno arte. A questo ragionamento va aggiunto il fatto che nella cosiddetta alta ristorazione si sprecano annualmente tonnellate di cibo e non sempre è cristallino il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro, relativamente a orari di lavoro/retribuzione. Duole dirlo ma l’etica non è la prima preoccupazione di gran parte dei protagonisti del mondo patinato dell’ haute cuisine E a poco servono, a mio parere, le iniziative come quella di Food for Soul, voluta e realizzata dal pluristellato Massimo Bottura, che ha realizzato in diverse città dei refettori, all’interno di luoghi storici ristrutturati, con grande attenzione al design e all’impatto visivo. In queste mense vengono serviti ogni giorno migliaia di pasti caldi a persone in difficoltà di sopravvivenza, utilizzando eccedenze alimentari che altrimenti finirebbero nelle discariche. Se visitate il sito troverete lo slogan “Il pasto è un gesto d’inclusione” e la didascalia: “Grazie all’arte, al design e alla bellezza, trasformiamo luoghi abbandonati in spazi inclusivi dove i nostri ospiti possono sentirsi accolti e valorizzati”. Letta di corsa e con scarsa voglia di comprensione, l’iniziativa parrebbe di per se nobilissima: recuperare il cibo in esubero di supermercati e ristoranti, trasformarlo in ottimi pasti caldi serviti da una rete di eroici volontari. Ma sarà poi di buon gusto, nei confronti del povero che ha problemi a tirare su un piatto caldo di minestra, essere accolto in un ambiente luminoso ed elegante, dove può fermarsi per il tempo di riempirsi la pancia e poi tornare alla quotidiana routine del non avere un tetto e un lavoro? Mi immagino la risposta piccata di un ipotetico sostenitore di questa iniziativa il quale, dopo aver letto le mie affermazioni, direbbe “meglio di niente” oppure “meglio salvare un essere umano dalla fame che restare immobili ad osservare il degrado”. La politica del “meglio di niente” è la colonna sonora di questi tempi bui, dove tutto è immolato sull’altare del marketing e dell’indifferenza e mi permetto di aggiungere che non è la beneficenza, per quanto prodotta con le griffes di cuochi stellati, la soluzione al disagio e all’esclusione dei bisognosi che affollano le nostre città. Se i grandi della ristorazione, anziché cercare compulsivamente l’immortalità attraverso creazioni spesso cervellotiche, contribuissero dall’alto della loro conoscenza a migliorare l’educazione alimentare della gente comune, farebbero cosa migliore rispetto ad azioni che sanno di operazioni d’immagine da cento chilometri.

Atto III A parte le mosche bianche, che si contano sulle dita di una mano, gli operatori della grande ristorazione hanno una scarsa, se non inesistente, attenzione ai problemi dell’ambiente. Aspetto particolarmente deprecabile se, chi ha fra le mani la grossa responsabilità di maneggiare e trasformare il cibo, lo fa senza pensare e trasmettere ai propri clienti la gravità del disastro ecologico mondiale. Disastro legato a doppio filo con gli allevamenti animali dai quali si forniscono, con industrie che contribuiscono al design dei loro ristoranti fighissimi, con chi produce vino in modo irresponsabile, con chi sta svuotando il mare con la pesca intensiva e selvaggia. Un cuoco, più è famoso e conosciuto dal pubblico, più avrebbe il dovere di essere prima di tutto una sentinella del proprio territorio e farsi portavoce di istanze di salute pubblica a partire dai propri tavoli e utilizzando la propria immagine in questo senso. Parrebbe invece che molti grandi nomi vanno nella direzione opposta e l’immagine viene usata per il lancio di prodotti industriali di livello basso.

In conclusione. Il delirio dello Chef eroe televisivo, che ha visto in questi ultimi dieci anni migliaia di ragazzini iscriversi a scuole di cucina per provare a svoltare e diventare delle star, è auspicabile che finisca, come merita, nel dimenticatoio e il ruolo del Cuoco torni ad essere quello del ricercatore che con studio, esperienza e umanità dà un contributo reale alla crescita culturale ed etica della propria comunità.

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