A questa Europa manca una visione del futuro

21 Aprile 2020
[Salvatore Multinu]

Ospitiamo il contributo a firma di Salvatore Multinu di Sinistra Italiana Sardegna al dibattito avviato dall’articolo di Roberto Mirasola e proseguito da Franco Ventroni sull’Europa e gli accordi in sede Ecofin (red).

In questo frangente triste della pandemia servirebbe – eccome! – un progetto che assuma la realtà geografica e storica dell’Europa e la trasformi in uno spazio politico ed economico: era quello che avevano in mente i grandi leader del secondo dopoguerra, ma che è diventato nel tempo un gruppo troppo ampio e troppo variegato di Stati, ciascuno teso soltanto a difendere e promuovere il proprio interesse nazionale.

Forse questo esito era già nel DNA originario, se si è cominciato con carbone ed acciaio piuttosto che con valori, diritti e doveri. Ma ora la visione economicista – nella peggiorativa variante finanziaria – è diventata la sola in campo; e non si tratta di una visione globale, che avrebbe forse senso per definire il ruolo geopolitico di un pezzo significativo – per storia e cultura – del pianeta, ma di una visione miope, incapace di guardare lontano.

Sarebbe bella un’Europa unita che concorre con i grandi poli di USA, Cina, Russia, e contribuisce così a quel multipolarismo che solo può assicurare un governo tendenzialmente più democratico del pianeta; invece quella realizzata – pur con i risultati positivi che ha raggiunto in termini di integrazione e di mobilità, da salvaguardare – si è ridotta ad un insieme di Stati che si fanno concorrenza, spesso sleale, tra di loro e che sull’insieme del globo incidono molto meno di quanto potrebbero. Perché quello che manca è una strategia politica, una governance in grado di valorizzare tutti gli Stati dell’Unione invece che solo alcuni e a scapito degli altri.

Ecco perché non credo che il problema per l’Europa di oggi sia la diatriba sugli strumenti finanziari da utilizzare per far fronte alla crisi che deriverà dall’epidemia del Covid-19; che sono importanti, ovviamente, ma che senza una strategia politica rischiano di consolidare ancora di più il carattere puramente economicista della UE. Tutti gli strumenti in campo, che saranno esaminati nel Consiglio di fine aprile, si fermano a questo livello: MES, SURE, Eurobond, Recovery Found. Questi ultimi sono, del resto, già pensati come provvisori, e quindi eccezionali rispetto alla routine alla quale si vorrebbe tornare il più presto possibile, con i suoi parametri ordoliberisti, i vincoli di bilancio eretti a totem, l’austerità come punizione da imporre ai paesi più scapestrati (pur rilevando dall’esperienza la sua sostanziale inutilità anche sotto il punto di vista meramente economico-finanziario).

Non si affronta invece – consapevolmente – il problema che alimenta la concorrenza interna e impedisce la solidarietà: cioè il problema dello spread, del differente peso che ha sui bilanci nazionali il servizio del debito pubblico, con ciò che ne consegue in termini di crescita delle disuguaglianze tra paesi più ricchi e paesi più poveri; né il problema delle legislazioni fiscali, anch’esse foriere di concorrenzialità sleale e disuguaglianza.

Bene, se questi due temi restano fuori dal dibattito europeo anche in questo frangente che vede tutti i Paesi alle prese con un nemico comune, significa che davvero questa Europa non è riformabile, e che gli europeisti devono impegnarsi a trovare il modo per smontare questa architettura istituzionale e implementarne un’altra. Ogni ritardo non farebbe che prolungare l’agonia dando fiato in ogni Paese alla crescita di quel sovranismo che non può essere combattuto con la retorica del più Europa, ma solo con la concretezza coerente di un’altra Europa!

È difficile che un simile impegno possa essere assunto interamente dal Consiglio, che nella migliore delle ipotesi trasferirà nel dibattito le diatribe interne e il prevalere delle posizioni delle maggioranze governative di ogni Paese. Occorre attivare – attraverso il Parlamento europeo, ma non solo – le capacità di analisi e di elaborazione delle forze politiche, strappando anche esse alla visione miope dei contesti nazionali per farle confrontare su un ambito transnazionale di livello europeo. Partito Socialista Europeo, Verdi, Sinistra, devono confrontarsi immediatamente su un’agenda che abbia come traguardo temporale al più il 2030, ma che inizi da subito a bloccare ogni risoluzione tesa al mantenimento o al rafforzamento dello status quo. Con qualsiasi mezzo, ivi compreso il potere di veto da parte degli Stati oggi governati da quei partiti.

Nel frattempo va liberata dai lacci e lacciuoli che le sono stati costruiti intorno la BCE, che deve diventare ciò che sono le banche centrali degli altri Paesi. Se la Bank of England provvede, anche stampando moneta, a finanziare il Tesoro britannico e la Federal Reserve a finanziare il Tesoro americano, altrettanto deve fare la BCE, limitando in tal modo a valori fisiologici il ricorso al debito sui mercati ma assorbendo tutto ciò che è dovuto alla eccezionalità patologica del momento; oltre tutto – come sostenuto, tra gli altri, da Fassina (che non si capisce perché dovrebbe tacere mentre ai più è consentito addirittura di sproloquiare) – è anche lo strumento di più immediata realizzabilità. Esistono proposte, elaborate da economisti di livello, in grado di avviare questo processo: si tratta di esaminarle e concretizzarle, lasciando agli altri strumenti finanziari in discussione (MES, ma ogni altro che alimenti il debito e la speculazione) un ruolo secondario e integrativo.

Utopia? Può darsi che ci sia una componente utopistica, che tuttavia accompagna sempre qualunque visione del futuro. Ma l’alternativa – questa niente affatto utopistica – è la lenta agonia di un’Europa evidentemente inadeguata a rispondere alle esigenze, ordinarie e straordinarie, delle sue popolazioni.

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