Dove appartengono i sardi?

16 Ottobre 2009

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Giulio Angioni

E’ indubbio che le forme di svantaggio per le identità o appartenenze minori che “devono” convivere con identità o appartenenze maggiori e con maggior potere sono un problema dei nostri tempi, sebbene ereditato da altri tempi anche primordiali. La storia conosce dappertutto situazioni di convivenza sbilanciata tra gruppi più o meno differenziati nei loro modi e condizioni di vita, oltre che per stratificazioni di potere al loro interno. Oggi lo stato del mondo, riguardo alle situazioni e ai sentimenti di appartenenza e di identità che più contano, tende a dividersi e a dividerci in due grandi appartenenze importanti e fondamentali, ma troppo implicite e ovvie per essere tenute abbastanza in conto, di cui è bene parlare brevemente proprio per vedere meno sfocate situazioni particolari e locali, come quella sarda o come quella del Mezzogiorno in quanto due esempi differenziabili di una fenomenologia variegata. E’ abbastanza sicuro che i sardi (come il resto dei popoli dello stato italiano) oggi nel mondo si sentono e si qualificano come occidentali (seppure con qualche dubbio e incertezza, più faceta che seria nel caso degli italiani meridionali e insulari). E’ abbastanza certo che in Sardegna ci si sente Nord del mondo piuttosto che Sud, che sebbene con qualche dubbio redisuo ci si sente parte dei paesi ricchi, mentre c’è tutta un’altra parte da cui anche i sardi si sentono e vogliono sentirsi diversi, che è quella che chiamiamo terzo mondo, paesi poveri, o più piamente in via di sviluppo e così via. In tale situazione bipolare, che ne è delle varietà e delle appartenenze minori e minoritarie? Proprio il problema di queste particolari identità può essere visto meglio nella sua importanza e nelle sue dinamiche se oggi le identità minori si guardano dal punto di vista delle due grandi differenze e appartenenze Nord e Sud del mondo. Non è neanch’esso un fatto nuovo, ma è nuovo per la sua portata, che bipolarizza tutto il pianeta e tutta l’umanità, è nuovo per la sua enormità che chiamiamo globalizzazione, mondializzazione. E’ relativamente nuovo il fatto che oggi nel pianeta terra siamo costretti nel bene e nel male a sentirci parte di una delle due grandi partizioni, la cui relativa vaghezza non solo geopolitica non è priva di forza identificatrice. E allora, quando oggi parliamo di identità o di appartenenza (meglio sarebbe dire appartenenze, al plurale)  non dovremmo trascurare che le identità che oggi contano non sono tanto quelle che diciamo etniche, o che comunque non contano solo esse. Certo contano anche le identità che diciamo etniche, e quindi anche le minoritarie che però dobbiamo modulare da situazioni gravi come quella, poniamo, curda, a situazioni scomode come quelle dei sardi o dei corsi o dei friulani, con punte acute in casi come quelli corsi o baschi o irlandesi. Ma queste situazioni locali non acquistano forse più senso e giusta prospettiva se viste all’interno del fatto relativamente nuovo delle due identità planetarie, prima esistenti in forme solo embrionali, per esempio nelle grandi religioni universali come il cristianesimo o  l’islamismo che sono nate con aspirazioni e anche pretese salvifiche per tutta l’umanità, oppure se si considera che ciò che noi diciamo modernità è qualcosa che ha dentro di sé la nozione di superiorità della modernità occidentale.  Dunque anche in altri tempi e in altri millenni un sentimento di appartenenza all’umanità come totalità esisteva. Ma l’idea, il sentimento, la constatazione di un’umanità come tale (umanità globale) e come totalità planetaria è qualcosa di nuovo. Probabilmente non ha torto chi vede nascere questo nuovo senso di un’umanità unica, chi vede per la prima volta svilupparsi il sentimento di appartenenza all’umanità come specie quando la nostra intera specie, la stessa vita, la stessa terra è minacciata, cioè nel momento in cui la possibilità di autodistruzione è diventata realistica, a partire dalla seconda metà del ‘900 con la bomba atomica. Ancora una volta, si acquisisce consapevolezza di sé scoprendo la propria precarietà nel mondo. Questi sono i più grandi sentimenti di appartenenza di oggi: prima di tutto quello di appartenere all’umanità che vive in un pianeta che ha i suoi problemi di sopravvivenza, poi quello di appartenere a una parte di umanità che nel nostro caso è quella ricca, dominante, di maggiore prestigio, magari anche democratica, che non ha problemi fondamentali di sopravvivenza quotidiana e di applicazione quotidiana dei diritti umani, mentre l’altra parte di umanità, che è la maggior parte dell’umanità, ha più o meno forti questi problemi di povertà, dipendenza, subordinazione, sfruttamento, negazione di democrazia e di diritti. Sta di fatto però che hanno la loro importanza e bisogna anche occuparsi di problemi come quelli delle appartenenze minori, da vedere però dal punto di vista che dicevo, cioè delle due grandi appartenenze planetarie in qualche modo inedite, dell’essere umanità umanità ricca e dominante o umanità povera e dominata. Anche noi occidentali abbiamo oggi l’abitudine di considerare come sempre positive e solo produttrici di azioni e reazioni giuste e sacrosante le appartenenze minoritarie in contatto più o meno problematico con parti maggioritarie magari organizzate in uno stesso stato come è il caso della Turchia o dell’Iraq rispetto al popolo curdo, o, se si vuole, della Sardegna rispetto allo Stato italiano o magari all’Unione Europea. Bisogna tenere conto dell’abitudine o propensione a considerare solo positivamente, come qualcosa che suggerisce sempre azioni, reazioni e sentimenti giusti e sacrosanti l’essere parte di una situazione di subalternità e/o di minorità etnica. Dovremmo a volte diffidare anche della generale simpatia che in genere l’Occidente riserva alle minoranze più o meno conculcate specialmente quando siano implicate in situazioni da terzo mondo o quando non si tratti delle proprie minoranze etniche o nazionali o linguistiche  o religiose e così via. Prima di tutto perché non è vero. A noi basterebbe considerare non solo le recenti mattanze interetniche jugoslave, che parlano tanto chiaro da accecarci e da farsi considerare cose che non ci riguardano: o, sempre per noi italiani, il leghismo norditaliano, per capire come non sempre i sentimenti di appartenenza generano sentimenti, reazioni e magari anche progetti politici accettabili sul piano dei diritti umani e della stessa base culturale dell’Occidente odierno. Cioè noi dobbiamo sempre misurare ciò che i nostri sentimenti di appartenenza ci suggeriscono alla stregua di altre misure e di altri valori che non siano esclusivamente quelli di sentirci parte di un’identità, conculcata o meno. Volendo continuare il ragionamento, i torti dei conculcatori sono sempre ragioni dei conculcati? Forse sì. L’appartenenza  a piccoli popoli è vista e sentita spesso come fonte di ragioni e di diritti, ed è spesso normale l’idea che le etnie minoritarie siano nel giusto nel rivendicare la propria identità proprio in quanto minoritarie e anche solo per questo subalterne. Infatti l’esistenza di piccoli popoli in convivenza con grandi crea spesso situazioni di discriminazione dei piccoli popoli. Eppure l’infrazione dei diritti dei piccoli popoli non si misura solo sui sentimenti di appartenenza: si misura su altre scale, più neutre, perché i sentimenti di appartenenza etnica di per sé non sono né buoni né cattivi, e infatti di appartenenza etnica si muore eroicamente tanto quanto in nome dell’appartenenza etnica si uccide brutalmente. L’essere questo o quell’altro non  produce di per sé  niente di buono e niente di male nei rapporti reciproci tra diversi identità. Storia e antropologia ci insegnano che appunto i sentimenti di appartenenza ad una collettività comunque individuata (dall’umanità universale al campanilismo più ristretto) è un qualche cosa che gli uomini creano sempre per il fatto di essere in gruppo, e che quindi il senso di appartenenza è qualcosa di elementare e umano che suggerisce azioni e reazioni umanamente varie, quindi problematiche. La situazione dei piccoli popoli a contatto e in convivenza geopolitica con grandi popoli è tanto spesso problematica, anche quando il grande non tenda a conculcare il piccolo, per il fatto stesso che il grande ha maggiore importanza del piccolo. L’appartenenza o identità dunque produce valori e disvalori, e i comportamenti etnici devono valutarsi sulla base di criteri esterni alla pura appartenenza: valori e disvalori insomma non cambiano di segno quando si appartiene a questo o a quell’altro popolo,  maggioritario o minoritario, ma l’appartenenza etnica acquista valore o disvalore a seconda di come, di chi, di quando agisce nel nome della propria identità etnica, della propria appartenenza. Eppure è anche obbedendo a sentimenti e a risentimenti di appartenenza etnica che siamo più portati a fare operazioni come quelle di alzare bandiere, vessilli, slogan e parole d’ordine di fronte a situazioni sempre in movimento, situazioni di incertezza dove proprio anche l’uso della fredda ragione è indispensabile piuttosto che il richiamo a sentimenti che tanti guai anche nella nostra storia recente hanno creato, come certi nazionalismi o etnicismi anche di entità minoritarie.
Anche per queste ragioni più generali non è mai stato facile essere e pensarci sardi, ieri come oggi, a qualunque dei piccoli o grandi o infimi imperi mediterranei abbiamo “appartenuto”.

3 Commenti a “Dove appartengono i sardi?”

  1. Marco Orrù scrive:

    Concordo. Molto bene. Ma questo è solo ciò che ci accomuna a parti del mondo più o meno grandi. Resta il fatto e il sentimento di ciò che ci distingue, che ci identifica come sardi, magari di ciò che ci identifica senza farci solo sragionare o sdilinquire nel compiacimento.

  2. Marcello Perria scrive:

    Ci si accorge di se stessi e di un “noi stessi” solo quando ci si accorge degli altri. Spesso noi sardi pretendiamo di fare il contrario, guardandoci “dentro”. Così ci possiamo illudere meglio di appartenere a “noi stessi”, con separatezze impossibili., con importanze impossibili, con caratteri impareggiabili. Angioni tratta anche il tema “secondario” della buona stampa di cui godono le piccole patrie, le appartenenze minori. Giusto rilevarlo, e rilevarne la fragilità. Perché questa benevolenza è di superficie. Appena chiedi qualcosa di importante non godi più di nessuna benevolenza come sardo o corso o curdo, ma solo quando rimani esotico, nativo, un po’ strano… sardo da sfilata di Sant’Efisio.

  3. Giampaolo Casti scrive:

    Un articolo che fa riflettere quanto mai. Anche perché si ha spesso l’impressione che in Sardegna cerchiamo quasi sempre di identificarci all’interno, guardandoci l’ombelico, o mostrandolo.

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