La danza non è cristiana?

16 Luglio 2015
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Giulio Angioni

Che cosa sarebbe la cerimonialità cristiana, compresa quella popolare, senza la musica e più in particolare il canto? Ma come mai la danza non pare essere mai stata un elemento neppure secondario delle pratiche religiose del cristianesimo? La danza da molti secoli è stata bandita espressamente dalla cerimonialità canonica di tutte le forme ufficiali di cristianesimo, con qualche rara eccezione, come nel cristianesimo africano del passato e del presente. Questa assenza della danza,  e il suo implicito o esplicito bando, sono una caratteristica notevole del cristianesimo. Il trattamento negativo e interdittorio della danza nel cristianesimo si può vedere allo stesso modo, per importanza e problematicità, oltre che per le sue conseguenze, dell’interdizione ebraica e islamica della figurazione, e forse anche, per quanto riguarda l’islam, alla stregua della sostanziale assenza nel culto della musica soprattutto strumentale.

Il cristianesimo soprattutto euroccidentale non è pensabile senza l’uso e l’incremento di certe arti, per quanto è stato fautore e fruitore intenso delle arti visive e della musica nei riti e nelle pratiche connesse e parallele al culto. L’assenza e l’esclusione esplicita della danza nel culto, e non solo nel culto, è tanto più evidente se si considera che le religioni precedenti e coeve da cui può dirsi che il cristianesimo storicamente promani, a cominciare dall’ebraismo e dalle altre religioni dell’impero romano, praticavano la danza nei loro culti pubblici e privati, come tanti altri culti di altre culture.

Nullo o troppo scarso pare lo studio storico della millenaria esclusione della danza anche fuori del culto, come la lotta contro il ballo pubblico o privato, nella prima metà dell’Ottocento in clima di restaurazione. Ma l’interdizione cerimoniale della danza nel cristianesimo sembra anche contraddire l’opinione degli studiosi dei rituali formalizzati, che i riti e i cerimoniali siano in fondo assimilabili alla danza, o viceversa. Annotando a caso, se gli ebrei danzavano cantando nelle cerimonie di nozze e alla festa dei tabernacoli (gli uomini, pare, separati dalle donne come ancora oggi in Medio Oriente), e se Platone raccomandava la danza come salutare esercizio fisico e spirituale, nella Roma imperiale sono stati spesso banditi certi spettacoli di danza, tanto che non di rado, a Roma come in Egitto o in India o in Giappone, danzatori e danzatrici erano e sono considerati infami anche più degli attori.

E’ probabile che il cristianesimo abbia preso e approfondito  la considerazione negativa romana, ereditata dai Padri della Chiesa, che hanno spesso levato la voce contro, tanto che ben presto è stato espressamente e con forza proibito ai chierici di assistere a spettacoli di mimo o di istrionismo, e ancor più di prendervi parte, sotto pena di perdere lo stato e i privilegi clericali o di non acquisirli. La danza insomma, specialmente quella di professionisti, in Occidente è stata spesso una questione di decenza, di decoro, se non proprio di moralità, in particolare quando si tratti di persone e di momenti dediti al culto. E così in oltre il millennio di cristianizzazione che diciamo medioevo, la danza è stata quasi sempre e dovunque non solo bandita dal culto ma anche avversata dalla Chiesa in quanto indecente o immorale. Alla fine del nostro medioevo la danza pare ormai, con eccezioni, fuori dal culto e dai luoghi sacri.

Ma a dispetto delle interdizioni, le popolazioni europee non hanno smesso di ballare, anche in luoghi sacri se non proprio in chiesa nelle cerimonie ufficiali, dove invece il cristianesimo ha esercitato spinte propulsive fondamentali in altri ambiti estetici (come appunto la musica strumentale, il canto, la pittura, la scultura, l’architettura e così via), distinguendosi in questo dalle altre due grandi religioni mediterranee. Lo studio delle interdizioni ecclesiastiche ufficiali potrebbe documentare un effetto maggiore sulle classi dominanti rispetto alla maggiore conservatività delle classi popolari e soprattutto contadine, sebbene abbia prosperato dovunque la figura del giullare, che era anche danzatore, di intrattenimento spettacolare, e senza nessi religiosi.

Il medioevo popolare è soprattutto l’epoca della danza macabra, organizzata o spontanea in occasione di cerimonie funebri. Per tornare a quanto riguarda il cattolicesimo e in genere il cristianesimo occidentale, sembra che la danza abbia attirato l’attenzione e sia stata usata come mezzo espressivo ed estetico solo e principalmente come danza macabra. La danza macabra è documentata prima come spettacolo scenico coreutico e poi anche come figurazione. Nelle due forme ha fruito delle più ampie franchigie proprie delle tradizioni pittoriche e scultoree e della musica sacre, usate come mezzo di culto, di pedagogia, di edificazione, di propaganda religiosa. Ma la danza macabra, o danza della morte, sembra sia stata fin dall’origine uno spettacolo edificante, almeno fin dalla metà del 1300 in Europa Occidentale. Alla nascita e al diffondersi della danza macabra si sogliono associare le epidemie frequenti e micidiali, la Morte Nera, per secoli e secoli nell’immaginario popolare la grande falciatrice. In seguito la danza macabra è diventata forma drammatica codificata, dove la figura della Morte passa a essere, da sterminatrice a messaggera di Dio che chiama a raccolta l’umanità davanti alla tomba, a suon di musica e a passo di danza, significando che tutti dobbiamo morire e comparire davanti al Giudice.

È così che i luoghi di culto diventano luoghi di danza spettacolare con preghiere e sermoni, simulacri e maschere scheletriche che conducono alla tomba papi e re, principi e cardinali e tutti quanti senza distinzione. Si può risalire forse anche molto più indietro nei tempi cristiani della Sardegna, ma nell’isola sono notevoli per il XVI secolo due testimonianze. Quella della Sardiniae brevis historia et descriptio di Sigismondo Arquer nella seconda edizione della Cosmographia universalis che Sebastian Muenster pubblicò a Basilea nel 1550, dove l’Arquer riferisce, con senso di riprovazione, che i sardi rustici “audita missa in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, prophana cantant, viri cum foeminis ducunt” (Arquer 1550). E quella specie di ciclo scultoreo della chiesa di San Bachisio a Bolotana, dove si rappresentano scene di ballo che noi oggi riconosciamo ancora come sardo, e che, per essere all’interno di una chiesa, conferma quanto testimonia l’Arquer per il medesimo periodo.

Anche per la Sardegna la fonte documentaria più ricca per i secoli passati è quella dei sinodi e di simili occasioni organizzative e dottrinali ecclesiastiche. Ma ancora oggi, o appena ieri, è possibile notare o almeno intravedere residui  di forme di danza religiosa o parareligiosa in certi aspetti e momenti di manifestazioni festive popolari, più o meno autonome e parallele alla cerimonialità ufficiale, come le processioni dei ceri a Sassari e a Nulvi e certe processioni della Settimana Santa, dove non è eccessivo considerare come passi di danza certi movimenti ritmici del trasporto di ceri, candelieri, statue e altro.

[*Immagine: La danza alla gioia, di Bruno Greco]

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