Le illusioni del saggio cinese. Riflessioni sparse sull’università

16 Maggio 2007

di Franco Tronci

CAGLIARI - UNIVERSITA'Il ministro dell’università e della ricerca, Fabio Mussi, oltre a occuparsi dell’organizzazione del movimento per l’unità della sinistra, ha anche predisposto, o ha intenzione di emettere, una serie di decreti legge che intendono porre argine allo stato di grave crisi in cui versano l’università e la ricerca italiane.
L’insieme dei provvedimenti si configura come un intervento organico sugli aspetti più evidenti dei danni provocati dalla dissennata attività riformatrice dei governi succedutisi in Italia negli ultimi quindici anni: la terrificante situazione delle lauree triennali il cui numero di corsi ha abbondantemente superato le duemila unità; la scarsa definizione scientifica e metodologica delle lauree “specialistiche” biennali soprattutto se considerate nel loro rapporto con il triennio di base; la riduzione del numero chiuso (o, più elegantemente, programmato) alla sola facoltà di medicina; la revisione del dottorato di ricerca; la riforma dei concorsi e così via.
C’è stato chi, in questi anni, profeta inascoltato o disturbatore emarginato, aveva previsto dove avrebbero condotto la trasformazione in azienda di una delle più importanti istituzioni del paese, la sua connotazione come diplomificio o mercatino delle lauree con i saldi tutto l’anno (chi ha voglia si legga le convenzioni tra i diversi atenei e i responsabili di diverse categorie, dalle forze armate ai dipendenti dei ministeri, per il conseguimento delle lauree per corrispondenza), la programmatica svalutazione della ricerca di base e l’erosione progressiva del suo finanziamento, lo scimmiottamento di sistemi di valutazione e formazione di provenienza anglosassone senza un’adeguata modifica della quantità e qualità delle strutture e dei sistemi di divulgazione del sapere e di metodologia della ricerca scientifica, l’annientamento progressivo, in nome dell’autonomia, di ogni soluzione che, tenendo in equilibrio ricerca (di base e applicata) e didattica, esaltasse veramente le capacità programmatorie delle facoltà, dei dipartimenti, delle istituzioni dell’autogoverno dell’università.
Costoro, per eccesso di ottimismo, commettono l’errore di comportarsi come il saggio cinese che si siede sulla riva del fiume ad aspettare che la corrente trasporti, finalmente, il cadavere del suo nemico. Ciò accadrebbe, in effetti, se gli interventi programmati del ministro Mussi si accompagnassero all’apertura di un dibattito che consentisse di far luce su responsabilità politiche precise, sulla natura degli errori commessi, sul modo di porvi rimedio.
La paziente attesa del saggio cinese è destinata, purtroppo, a rimanere insoddisfatta. Non vi sarà nessuna discussione; né nelle facoltà, né nella conferenza dei rettori, né negli organi che riuniscono i presidi. Né gli studenti, divenuti in questi anni anche precari del sapere, sembrano avere la forza di chiamare chicchessia ad un redde rationem.
I provvedimenti del ministro, perciò, pur innestando oggettivamente un’importante inversione di tendenza, rischiano di apparire come puri aggiustamenti in continuità con la situazione precedente. Anche perché lo stesso Mussi assume pubblicamente, nei confronti dell’istituzione di cui è ministro, un atteggiamento che più che politico chiamerei moralistico presentando l’università, che pure ha non poche e non lievi responsabilità, come un luogo di corruzione da moralizzare. E ciò non è sufficiente anche perché il governo ha fatto crescere in modo spropositato i costi della politica, ha fatto di Cimoli, il distruttore delle ferrovie e di Alitalia, il menager più retribuito d’Europa.
Il fatto è che per iniziare un serio dibattito politico sull’università bisogna avere il coraggio di risalire ad un momento cruciale della storia della sinistra italiana, vale a dire al 1989, alla caduta del muro di Berlino, all’implosione dell’Unione Sovietica. E’ in quel momento che il maggiore partito della sinistra, per accreditarsi fra le forze ‘ragionevoli’, ha deciso, con poche eccezioni, di rinunciare ai propri valori e alla propria memoria storica per dar luogo ad un itinerario che, di negazione in negazione, conduce al prossimo partito democratico.
Non si può, almeno in via preliminare, discutere di università separandola dal destino che la accomuna alla contemporanea demolizione della scuola, anch’essa prevista come “azienda” e come “autonoma”, sacrificata ad una visione privatistica e/o clericale, alla privatizzazione di tutto quanto ha avuto a che fare con una presenza, anche minima, dello stato in economia o con le conquiste dello stato sociale: sanità, poste e telecomunicazioni, ferrovie, diritti del lavoro e democrazia sindacale. La precarietà nell’università è sorella della precarietà del call center.
Tutto si tiene e non è pensabile un rilancio dell’università senza una ripresa profonda, nell’analisi e nel metodo, della progettazione di una sinistra nuova ed unita.
Se le cose vanno dunque male per i saggi cinesi, peggio rischiano di andare per i pazienti sardi: la maggiore delle due università isolane ha scoperto, infatti, la regola perfetta dell’immobilità e da molto tempo intende la propria autonomia come un semplice fatto tecnocratico o semplicemente gestionale. Da diverse tornate elettorali non è stata in grado di esprimere un nuovo rettore ma ha modificato, caso unico, credo, in Italia, il proprio Statuto per confermare l’attuale rettore. La sua affezione alla carica, peraltro, si è vieppiù accresciuta in proporzione al tentativo di spenderla, vedasi la sua candidatura a sindaco di Cagliari, in altri progetti politici. Come si vede, non c’è da stare molto allegri.

1 Commento a “Le illusioni del saggio cinese. Riflessioni sparse sull’università”

  1. mimmo bua scrive:

    Credo che Franco abbia proprio ragione: non c’era da stare allegri prima (al tempo in cui la frequentavamo come studenti) e adesso c’è solo da piangere.
    A me pare che da tempo, in Sardegna almeno, a parte la strenua resistenza e l’indicutibile valore di alcuni seri ricercatori e docenti (per lo più vessati o messi ai margini) l’università degli “studi” sia morta da un pezzo, sostituita dalla “università-voliera” di pavoni, struzzi e pappagalli di variegato piumaggio (più qualche troglodita ignorante a far loro da trespolo).
    Franco penserà che sia troppo drastico nel giudizio. Ma non potrà certo dirmi che non lo legga diligentemente, aggiungendo un commento per provarlo.
    Per essere breve, metto in parole una proposta sintetica:
    così come non è possibile riformare o ricreare una ‘sinistra’ che è morta da molto, ma bisogna ricrearla dalle fondamenta, perché non cominciare a pensare che, allo stesso modo, bisognerà cercare di fare con l’università -: e perché no? iniziando proprio dalla Sardegna?
    Ad esempio: svuotando la “stalla” dei (pochi) cavalli di razza rimasti e lasciandoci a pascolare soltanto gli “asini”, che sicuramente ci si ritrovano a perfetto agio così com’è. E creando (ma non so come) una sorta di “Ecole des hauts ètudes” totalmente sburocratizzata (cioè libera da asini e da muli e con assoluto divieto d’ingresso ad entrambi, in particolare nella veste di “giudicanti”). Prevedo la saggia obiezione: e con chi la fai? trovamene dieci disposti a sostenere la proposta donchisciottesca…
    Certo che non è cosa da affidare all’iniziativa dei politicanti che si spacciano da “politici”. Quelli ci metterebbero dentro solo asini con l’orecchio marcato, cioè già ben addomesticati.

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