Subalterni in Europa e arroganti con i lavoratori

1 Dicembre 2014
lavoratori in bilico
Marco Ligas

Il nostro governo non perde occasione nel mostrarsi dipendente dalle politiche europee promosse dai paesi forti dell’Unione. Poco importa che queste siano incentrate sull’austerità e sulla tutela degli interessi del sistema finanziario.
Che abbia o no la presidenza del consiglio dell’Unione Europea non riesce e non intende modificare le sue scelte: subisce con irresponsabilità le politiche comunitarie e non prende atto che queste ci condanneranno ad un sicuro fallimento.
Non gli importa che i paesi più forti, e il sistema di potere che li governa, continueranno a prelevare risorse nel mondo del lavoro e nelle aree più deboli, in particolare in quella mediterranea, per trasferirle altrove, dove i livelli di ricchezza sono già rilevanti.
Le richieste dell’Unione Europea non hanno limiti: vanno dalla riduzione della spesa pubblica all’attacco dei diritti di chi lavora, dalla liquidazione dei beni comuni alla privatizzazione del patrimonio pubblico. Tutto ciò che può essere oggetto di speculazioni e di attività collegate o programmate dal mercato è ben accolto e alimentato.
Il debito pubblico è l’alibi usato per giustificare tutte le politiche di austerità. A nessuno dei nostri governanti viene in mente l’ipotesi della rinegoziazione del debito, della sua ridistribuzione temporale e soprattutto della riduzione dei tassi di interesse. Usando un’espressione calcistica si potrebbe dire che quando si trovano a Bruxelles i nostri rappresentanti diventano meno intrepidi e subiscono gli effetti di chi gioca fuori casa.
Eppure non sarebbe la prima volta che un problema di questa natura viene affrontato all’insegna della solidarietà al fine di migliorare le relazioni tra i cittadini dei vari paesi e i rapporti tra gli stati. La signora Merkel conosce questa pratica, il suo paese ne ha beneficiato più volte, non dovrebbe perciò trovare difficoltà nell’applicarla, ma la elude presentandosi inflessibile in nome di una moralità che nasconde la difesa di interessi egoistici.
Intanto la Corte di giustizia europea ha deciso che il governo italiano stabilizzi il personale Ata e i docenti che lavorano da più di 36 mesi con contratti a termine.
Si tratta di una sentenza storica perché colpisce il sistema della precarietà, diventato ormai la regola dei rapporti di lavoro. La ministra Giannini cerca subito di ridimensionare gli effetti di questa decisione. La «buona scuola», dice, prevede l’assunzione dei 150 mila docenti precari nelle graduatorie ad esaurimento e il concorso per 40 mila nel 2015. E con questa affermazione intende chiudere il discorso sulle nuove assunzioni.
Ma la sua interpretazione non è affatto convincente, e non sfugge come sia dettata dalla preoccupazione che il governo debba risarcire i danni per gli errori (o prepotenze) commessi negli anni scorsi.
La sentenza della Corte infatti sottolinea la discriminazione compiuta ai danni delle tante lavoratrici e lavoratori non assunte/i a settembre, pur avendone i titoli.
Non sappiamo come verrà applicata questa sentenza, riteniamo comunque che abbia un’importanza fondamentale perché interessa sia il lavoro pubblico che quello privato, mettendo così in discussione le scelte recenti del governo Renzi, non ultima quella relativa al jobs act.
È importante comunque fare una considerazione più generale su questa vicenda, ponendoci anche qualche interrogativo. Se l’Unione europea avesse chiesto al nostro paese un impegno finanziario aggiuntivo, per esempio nel settore degli armamenti, magari per l’acquisto di qualche F35, l’atteggiamento del nostro governo sarebbe stato uguale a quello assunto dalla ministra Giannini in seguito alla sentenza della Corte di giustizia europea? Sospettiamo di no.

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