Una bicicletta appesa al chiodo

23 Settembre 2020

[Gianni Loy]

Il giovedì santo, nel 1968, cadeva l’11 di aprile.  Nel pomeriggio, un gruppo di cattolici “del dissenso”, cosiddetti, si avvicinavano, alla spicciolata, alla chiesa del borgo Sant’Elia, dove l’arcivescovo di Cagliari, mons. Paolo Botto, avrebbe celebrato le funzioni della settimana santa. Il cielo era leggermente velato e la scalinata era lunga.

Ciascuno di noi portava con sé un foglio ciclostilato, contenente il testo di una breve preghiera, concordata qualche giorno prima, che avremmo dovuto leggere, interrompendo la sacra funzione, per denunciare l’operazione del Consiglio comunale che aveva progettato di cacciar via dalle loro case gli abitanti di Sant’ Elia, per lo più poveri pescatori, per destinare la collina che si affacciava sul golfo degli angeli ad un insediamento residenziale destinato ai  “ricchi”.

Avremmo ricordato, sulla falsariga della parabola del ricco epulone, di come stava per consumarsi un’ingiustizia, per ricordare alla Chiesa il proprio dovere, fondato sul vangelo, di schierarsi con i più poveri.

Mentre risalivo la scalinata, mi chiamò, da lontano, un agente della Digos, la polizia politica, una sezione del corpo preposta alla conservazione dell’ordine democratico: “Sig. Loy, dove sta il suo amico Andrea Olla”?

Il mio amico Andrea, appunto. E’ di lui che voglio parlare. Che non era né un terrorista né un sovversivo, eppure già spiato e “schedato” dalla questura. Ancora non era niente, ancora agivano allo scoperto; dovevano registrare e riferire.

Agivano allo scoperto. In quell’occasione volevano soltanto farci sapere di essere perfettamente al corrente del crimine che stavamo per porre in atto: interruzione, o almeno turbamento di una funzione religiosa. Forse. Si trattava, allo stesso tempo, di una intimidazione e di una provocazione.

E pensare che Andrea non era né un terrorista né un sovversivo. Era persino iscritto alla Democrazia Cristiana, come me, del resto. Frequentavamo la sede di via Nuoro. Andrea, a quel tempo era persino Delegato cittadino del partito! Allo stesso tempo, era anche iscritto al manipolo dei “contestatori” che incominciavano a riunirsi in assemblea nelle facoltà, ad occuparle, a manifestare  lungo le strade della città; i cortei, solitamente, partivano dalla piazza Garibaldi. Mi par di vederlo ancora, agitarsi tra slogan e striscioni. Durante le manifestazioni si faceva notare. Quante volte siamo scesi lungo la via Sonnino, gridando che non era che l’inizio, che avremmo continuato a lottare, prima di imboccare la via Roma.

Contestatore, certo, e democristiano allo stesso tempo, anche se solo per poco tempo ancora, Non sarà facile da capire, almeno per chi quell’esperienza non l’ha vissuta, ma non c’era alcuna contraddizione. Semplicemente portava dentro il partito gli stesi temi di impegno politico, se vogliamo la stessa contestazione, che praticava nelle aule dell’Università e in piazza.

Ricordo che, in quello stesso anno, da delegato cittadino, in occasione di un convegno regionale, aveva espresso apertamente il proprio dissenso dalla linea del partito. Il resoconto ufficiale di quel convegno riporta che “l’intervento di Andrea Olla ha suscitato una certa animazione in quanto i temi che ha voluto trattare erano scottanti”.

Lo credo!  Invocava, a gran voce, davanti a una platea di conservatori, il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, ritenendola indispensabile “per un paese che si considera civile e democratico”. Chiedeva, riprendendo uno slogan del Movimento studentesco, “lo smantellamento della NATO”; iniziando, “come primo passo, con l’espellere i due Stati a regime dittatoriale e fascista (Grecia e Portogallo)”. Poi, affermava che “il problema della fame e del sottosviluppo nel mondo si combatte non solo con contributi finanziari, ma anche attraverso una cooperazione di tecnici, esperti e volontari, che vadano in quei paesi del Terzo mondo, non ad operare una colonizzazione sul piano economico e ideologico, ma mettendosi totalmente al servizio di quei popoli, offrendo la propria esperienza e il proprio lavoro”.

“La pace – affermava – può essere trovata solo se si eliminano l’oppressione e lo sfruttamento dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi”.

Nella Democrazia Cristiana, a differenza dal Partito comunista, si poteva esprimere qualsiasi idea; difficilmente si veniva espulsi, ma la cosa, ovviamente, non poteva durare. Dura minga. E non durò.

A partire da quelle idee incominciò la militanza, o meglio, l’esperienza di una vita ispirata a solidi valori.

Capisco che si tratta di cose lontane, forse troppo, ma il tema non è la politica. La condivisione di idee, tra noi, cementava l’amicizia e la stima che, a partire da quel momento, non è più venuta meno.

Ogni giorno ha la sua pena, ma anche la sua delizia. Ricordo, frugando nella notte dei tempi, qualche ora di svago in una sala da ballo di Capitana, assieme a Pinella. Ricordo che la militanza, nei periodi di più intenso impegno, si accompagnava alla convivialità. Ricordo momenti nei quali più intensamente abbiamo condiviso esperienze, tra cui quella di Pietro, altri nei quali sembrava che ci fossimo persi di vista.

Eppure, tutto correva in parallelo. Andrea si è dedicato alla protezione dell’ambiente, storiche alcune sue battaglie a difesa di qualche spiaggia o di qualche edificio di pregio. Sino all’impegno per la bicicletta. Ricordo che avvertiva l’impegno quotidiano come un dovere. Se gli sembrava di osservare un calo di tensione da parte tua non esitava a criticarti.

Assieme a lui, forse una trentina d’anni orsono, ho corso la mia prima gara podistica, la Cagliari respira che si concludeva ancora nel campo di viale Bonaria. E’ stato lui a convincermi, mi ha trascinato ad un unico allenamento, di qualche chilometro, proprio la sera prima della gara.  

Ma i ricordi, anche se, a volte, ci consolano e ci fanno compagnia, sono soltanto vanagloria.

Quel che conta, la sola cosa che conta, è che una mattina, mentre passeggiavo per il Corso, ho incontrato Maria Antonietta che, in compagnia di un’amica, faceva colazione davanti ad un tavolino collocato sulla carreggiata.

Avrebbe potuto commentare i risultati elettorali, freschi di giornata, o aggiornarmi sui fatti della città, arte nella quale è maestra. Invece si è limitata a comunicarmi: “E’ morto Andrea Olla”.

Così, senza perifrasi e senza alcun commento, se non un’indecifrabile espressione del volto.

Ed eccomi di nuovo, solo davanti alla morte, a interrogarmi sull’unica cosa certa che la vita ci riserva. E a pensare, forse egoisticamente, che mi mancherà un altro pezzo. Un’altra relazione, un’altra ancora, si è interrotta. La sua morte è un po’ anche la mia, come di tutte le tante persone che vedranno troncata, d’un colpo, la possibilità di intrattenersi ancora con lui.

Può darsi, quindi, che i ricordi, per quanto inutili, possano farci compagnia, per un po’, sino a quando, con la nostra morte, solo con quella, anche ogni altra morte diverrà definitiva.

Può darsi.

Proprio questo pomeriggio ho ritirato la mia nuova bicicletta, figlia del Covid. Domenica mattina ho in programma, assieme a Sonia, una passeggiata lungo la strada che conduce alla foresta di Gutturu mannu. Andremmo presto, ripercorrendo il tratto dove, proprio la settimana scorsa, Sonia si è imbattuta in un gruppo di piccoli daini, o cervi, nella speranza di incontrarli ancora.

Mi ricorderò di Andrea, di quando abbiamo ballato a turno con Pinella, di quando abbiamo corso assieme, persino di quando eravamo democristiani e, soprattutto, di tutte le volte in cui mi ha incitato ad andare in bicicletta.

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